21102007   Dopo la Storia della bellezza (volume da me fortunosamente acquisito, non letto però ma solo frettolosamente sfogliato) Umberto Eco ha appena dato alle stampe una Storia della bruttezza, rispetto all’altro libro, come con facilità si evince, pendant concettuale ed estetico.

Con molta tempestività in rapporto alla pubblicazione dell’opera, il gran semiologo-tuttologo ha discettato su di essa ieri sera in televisione, ospite nella trasmissione condotta da Fabio Fazio Che tempo che fa.

A Eco va dato senz’altro atto d’essere un affabulatore coltivato e accattivante, che in quanto tale si ascolta sempre volentieri e con piacere: ma, scavando sotto la forbitezza e la fluenza dell’eloquio, nei suoi discorsi alligna quasi sempre un cospicuo spessore di paralogia, di sconvenienza argomentativa.

Ieri sera Eco ha asserito che l’idea di bruttezza – così come quella antinomica e concorrente di bellezza – è condizionata dai tempi storici, dai luoghi geografici, dalle culture insomma, in cui si esplica ed esercita il gusto produttivo e fruitivo degli individui umani: tesi in merito alla quale largamente concordo con lui. Ma, ciò detto, senza soluzione di continuità, si è soffermato a discutere – allegando rappresentazioni iconiche per esemplificazione – su raffigurazioni artistiche, persone, animali indubbiamente espressivi a suo dire della bruttezza, considerata – a contrasto con quanto dianzi sostenuto – una sorta di categoria ontologica, risonante con la medesima caratterizzazione nella mente degli individui umani.

L’inclinazione a pseudo ragionamenti aporetici è davvero un connotato costitutivo della configurazione intellettiva di Umberto Eco, come da oltre un ventennio implacabilmente rileva e dimostra Luciano Nanni.

In merito alla questione della bruttezza (o della bellezza) il campo di soluzioni pertinenti è più articolato e complesso di quanto Eco professa o induce a congetturare.

Innanzi tutto è perspicua la convinzione che bellezza e bruttezza in sé siano poli di una antinomia ideale, in quanto tali mai concretizzabili o reperibili in alcuna manifestazione naturale o confezionata da mente e mano umane. Quindi consegue la tesi (fatta propria anche da Eco, sia pure entro un vizio di anfibologia) che sono le culture umane (più o meno estese nello spazio e resistenti nei loro tratti costitutivi lungo la linea cronologica) a curvare l’apprezzamento di “qualcosa” verso la polarità della bellezza o della bruttezza.

Ancora, va con risolutezza evidenziato che, nel contesto della medesima cultura, le differenze individuali esplicano una funzione determinante nella messa a punto di ogni giudizio estetico, trainate dalla forma mentis, dalla coltivazione culturale, dalla vocazione intuitiva di ciascuno.

Non bisogna poi trascurare la circostanza che entro una produzione estetico/artistica occorre, ovviamente, discriminare tra soggetto (tema, referente) e messaggio che lo significa: per cui un quadro può raffigurare una donna nella concezione pre-operativa dell’elaboratore bellissima ed essere però bruttissimo (meglio: reputato tale nel giudizio intersoggettivo di fruitori); al contrario, un’opera può compiacersi, per i più vari motivi, nella rappresentazione di un soggetto percepito come repulsivo dall’autore e dai “lettori” e venire tuttavia valutata, in quanto simbolizzazione, mirabile (è d’accordo con questa, del resto ovvia, impostazione anche Stefano Zecchi, in una sua recensione del libro di Eco, parsami in verità confusa ed evanescente, mentre solitamente apprezzo gli scritti di questo estetologo, quasi sempre garbati e puntuali).

Durante l’intervista televisiva di ieri sera Eco ha mostrato, tra l’altro, la fotografia di un cane, asserendo che essa rappresenta “il cane più brutto del mondo”. Così dicendo, il semiologo avvalorato da fama universale è incappato in uno strafalcione logico madornale e in una aporia stridente anche rispetto a un assunto da lui medesimo professato.

Infatti, sostenendo con saccenza e perentorietà che un certo animale è “il cane più brutto del mondo” si dà inevitabilmente luogo a una indebita generalizzazione induttiva, poiché, come si sa avendo anche soltanto alla grossa orecchiato Popper, a stretto rigore di logica solo dopo aver passato in rassegna proprio tutti i cani dell’orbe terracqueo si è legittimati a proclamare che il cane X è effettivamente il più brutto del mondo. Per soprammercato, Eco ha contraddetto la sua stessa tesi che ogni giudizio circa la bellezza o la bruttezza è costituzionalmente “relativo” rispetto ai tempi, ai luoghi e alle culture, clamorosamente smentendosi tramite pronunzia di un apprezzamento essenzialistico, di natura ontologica.

Tra l’altro il grand’uomo non ha tenuto presente, per avvertenza a contrasto della propria impulsiva e irrazionale avventatezza, una circostanza esperienziale assai comune. Ci sono persone (ne conosco anch’io) le quali investono d’affetto e premure cani e altri animali ad avviso di differenti valutatori veramente orrendi per apparenza complessiva delle forme corporee, secondo loro al contrario deliziosi e oltremodo gradevoli in ottica e proiezione estetiche.

Sotto sotto propendendo per una concezione metafisica della bellezza e della bruttezza, così come si incarnano in persone, animali, situazioni estetiche, oggetti artistici, Eco si appiattisce pari pari addosso agli schematismi valutativi del senso comune: in maniera addirittura clamorosa alla lettera buttando alle ortiche la finezza interpretativa di cui certamente si ritiene – ed è dalla vox pupuli considerato – in grado eminente dotato.

Infatti, la gente non avvezza a ragionare con rigore e senza compromissioni secondo i dettami della logica (percentualmente una quota elevatissima), allorché esprime la convinzione che “qualcosa” è bello (o brutto) neppure sospetta di stare proferendo un apprezzamento in forma e sostanza d’opinione, punto di vista, congettura, in quanto tale aleatorio e derivante da uno schema interpretativo condizionato da una molteplicità proliferante di fattori: per lo più tali individui reputano la propria valutazione quale giudizio ontologicamente fondato dal quale nessuno, in nessun tempo e luogo, può prescindere a cuor leggero.

Siffatto atteggiamento, in certi casi, è sostenuto da una giustificazione rilevante, alla quale Eco avrebbe potuto ricorrere, per conferire una efficacia un poco più consistente alle sue argomentazioni.

E dunque, data per scontata la “relatività” di qualsivoglia apprezzamento estetico, non si può trascurare la circostanza – constatabile con frequenza – che si danno convincimenti valutativi di grande resistenza temporale e capaci di una espansa disseminazione spaziale, tali dunque da costituirsi come canoni in cui s’attenua e quasi si dissolve la configurazione loro parziale e transeunte, a tutto vantaggio d’una apparenza di solidità non più riplasmabile né lungo la linea diacronica né entro la sincronia geografica.

Ecco, se il rigore argomentativo fosse la cifra costitutiva della figura intellettuale di Umberto Eco, sopra siffatto aspetto dell’ermeneutica che tira a mistificare se stesso quale fondamento ontologico egli avrebbe dovuto soffermarsi, per spiegare la presunta essenzialità di certi persistenti giudizi di valore: invece il prestigioso tuttologo ha preferito indulgere in lepidezze e arguzie radicate nel nulla, secondo un suo assai collaudato costume.

Verso l’epilogo della sua concione, opportunamente Eco ha evidenziato che l’idea di bellezza e quella corrispettiva di bruttezza non afferiscono in esclusiva al dominio estetico ma investono anche la sfera etica, per designare la specificità di azioni e comportamenti umani, individuali e sociali. Posta la constatazione, egli si è soffermato nell’evocazione di alcune aberrazioni alle quali senz’altro si attaglia la categoria della bruttezza, nell’intero ventaglio dei suoi sinonimi peggiorativi. I rilievi in argomento avanzati dal semiologo-tuttologo non si possono in sé ovviamente non condividere, pur se del tutto prevedibili e teoricamente banali.

Più intrigante a me appare invece la sottolineatura che in certe culture pure di grande pregio intrinseco (come, per esemplificare, quella greca antica di cui eponimo è il sommo Platone) le categorie della bellezza e della bruttezza hanno collocazione privilegiata e primaria proprio nei territori dell’etica, a rappresentazione della pertinenza o della riprovazione di azioni e comportamenti dei singoli e dei gruppi sociali.

Si fissi, a dimostrazione, l’attenzione sulla seguente, esemplare convinzione estrapolata dal dialogo platonico Ippia Maggiore: “Io dico dunque che, sempre per ogni uomo e dovunque, ciò che c’è di più bello è di essere ricco, sano, onorato dai Greci e, dopo aver raggiunto la vecchiaia e decorosamente deposto nella tomba i propri genitori, essere a sua volta sepolto dai propri figli con decoro e splendore”.

È condivisibile la tesi professata da Ippia che il percorso esistenziale da lui reputato più bello valga “sempre per ogni uomo e dovunque”? Evidentemente no, malgrado l’immediata individuazione in essa di connotati di forte persistenza diacronica: anche ogni condizione etica, infatti, sul piano della rilevanza e dell’apprezzamento, soggiace alla inevitabile parzialità, provvisorietà, contingenza degli orientamenti culturali e delle scelte operative.

Adduco, a conferma dell’asserto, prima di mettere il punto all’argomentazione, una ricognizione paradigmatica. Nella Bibbia, e a seguire per secoli e secoli, l’omosessualità è stata considerata quintessenza della bruttezza morale, abiezione assoluta e irrimediabile (Dio distrugge col fuoco Sodoma e Gomorra; fino a pochi decenni addietro gli omosessuali sono stati esecrati, perseguitati, marchiati d’infamia, anche se poi tale inclinazione riprovatoria era estranea alle culture greca e romana pre-cristiane; ancora oggi l’interdetto dell’Islam avverso i medesimi perviene fino all’eliminazione fisica di tal gente). All’incirca nella seconda metà del secolo scorso alla condanna senza remissione e appello s’è sostituito un atteggiamento di più o meno convinta tolleranza. Da qualche anno a questa parte si è verificata una sorta di ribaltamento della situazione, per via del quale ciò che per millenni è stato considerato supremamente brutto si vuole a tutti i costi metamorfosizzarlo in bello radioso (si ponga mete alle invero squallidissime parate denominate gay pride, alla pretesa dei culattoni di sposarsi con tutti i crismi legali: tutto ciò nel silenzio se non addirittura con la condivisione di coloro che, opponendosi apertamente a siffatte espressioni di degrado civile ed etico, temono di apparire retrogradi, di venire espulsi dal novero degli individui alla moda, sempre e comunque politically correct.

La sfrangiatura diacronica e sincronica dei giudizi di bellezza e di bruttezza morali risulta poi ulteriormente se si constata che fuori dal coro di quanti strillano che “omosessuale (gay è il termine usuale, forse perché esotico e di fonia gentile) è bello” persistono persone (come l’estensore di questa riflessione) del tutto ostili a siffatta esaltazione dei busoni, che li tollerano inclinando però a ritenerli malati e pervertiti, che reprimono sotto una maschera costruita di civile costumatezza forti sentimenti pulsionali di avversione e disprezzo.