Premessa, a distanza di anni

 

Due anni e mezzo sono trascorsi dalla redazione dello scritto che qui si ripropone. Di esso, ad avviso dell'autore, restano completamente valide le considerazioni concernenti l'ossessione del particulare e l'utopia del bene comune, come è quasi ovvio, trattandosi di categorie antropologiche connotanti in specie la "gens italica" operative da secoli e destinate a contrassegnare i tratti comportamentali degli italiani per chissà quanto altro tempo ancora.

La rilettura delle rilevazioni concernenti le peculiarità della politica italiana di quel periodo evidenzia, nell'estensore, uno spirito polemico estremamente acceso e risentito, attinente di certo alle specificità gestionali della cosa pubblica assai negative poste in essere dal governo nazionale di quel tempo fortunatamente breve, spirito polemico nel quale l'autore oggi non si riconosce più integralmente, convinto il medesimo che, forse, saggio e avvalorante è traguardare tutte le vicende umane, anche quelle più esiziali per il bene comune, con atteggiamento di pietas e atarassica commiserazione.

In merito a tre nuclei argomentativi, su due dei quali l'elaboratore è stato fatto oggetto di critiche feroci e denigratorie, egli ritiene opportuno appuntare le postille che seguono.

 

Per quanto riguarda la persona di Romano Prodi, in quel tempo presidente del Consigli dei Ministri, per buona sorte degli italiani sbalzato via dalla funzione tramite una sorta di congiura di palazzo, l'autore del saggio riconosce d'aver adoperato un linguaggio sempre aspro e intriso di pulsione deprezzativa che, per il motivo sopra accennato, più opportuno sarebbe stato annacquare, emotivamente isterilire. E' fuor di discussione che il personaggio suscita nell'estensore della riflessione una incontrastabile antipatia e che lo ritiene singolarmente inetto come reggitore della cosa pubblica. Ma, fortunatamente, ormai è uscito di scena, definitivamente, come quasi tutti sperano. Pertanto anch'egli, malgrado il danno arrecato al Paese (prima alla comunità europea) con la sua spiccata incapacità di governo, è bene, almeno oggi sogguardare con distacco, venato di leggera ironia, non più di impetuosa ostilità.

 

Nel testo viene male trattato anche  Giorgio Napolitano, pro-tempore presidente della Repubblica, per ragioni nel medesimo esplicitate. In specie le espressioni "irriguardose" nei confronti del capo dello Stato sono state ritenute dissacratorie dai paladini della sinistra, tanto da indurli a una interrogazione parlamentare (in occasione d'una esposizione pubblica dell'autore, quale dirigente tecnico del MIUR incaricato di valutare i comportamenti professionali d'una pattuglia di insegnanti che avevano platealmente rifiutato, sbeffeggiandolo con il rifiuto della disposizione, il ripristino dei voti numerici nella scuola primaria).
In proposito si specifica quanto segue. L'elaboratore del testo rieditato continua a non provare sentimenti amicali nei riguardi del presidente della Repubblica, sia per le posizioni da lui assunte, in quanto giovane dirigente di vertice però del partito comunista italiano,  in occasione  della  rivolta antisovietica degli ungheresi nel 1956, sia per le modalità della sua elezione alla suprema magistratura della Repubblica, disposta da poco più della metà dei rappresentanti del popolo (mentre colui che rappresenta costituzionalmente l'unità della Nazione bene ed etico sarebbe che venisse trascelto da una più ampia maggioranza).
Ciò ribadito, a metà ormai del suo mandato presidenziale, onestà intellettuale e volontà di non soggiacere troppo allo
spirito di fazione nel saggio rampognato costringono l'estensore dell'argomentazione a riconoscere che la funzione di presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la sta interpretando con estremo decoro, alto equilibrio istituzionale, con atteggiamento sempre super partes e alieno da ogni sudditanza anche nei riguardi di coloro che ideologicamente pure sono i suoi sodali storici.

Gettando uno sguardo a ritroso lungo la più recente storia italiana, l'autore non ha dunque oggi remora alcuna ad ammettere che Napolitano, nell'esercizio della suprema magistratura di cui è stato sia pure in immanenza di astiosa contrapposizione partitica investito, sta mettendo in campo uno stile gestionale, una vocazione pedagogica, una propensione al perseguimento del bene comune certamente ben più eminenti di quelli degli immediati predecessori, Francesco Cossiga, Oscar Maria Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi.

 

Una delle specificità della politica italiana che, a fine 2007, al compilatore del testo di cui qui si tratta sembrava più fastidiosa e deleteria era la presenza e l'azione d'una pletora di minuscoli partiti arroccati a sinistra del PD, fieri della loro matrice comunista, determinati a condizionare ad ogni costo il governo del tempo, non recedendo dinnanzi al ricatto, al delirio ideologico, alla saccenteria e all'arroganza dei fondamentalisti che danno per scontato e certo di fornicare diuturnamente con la verità, la giustizia e il superiore bene del popolo. L'elaboratore dell'argomentazione qui riproposta arrivava ad auspicare provvedimenti drastici atti a disboscare il panorama politico dagli insopportabili "nanetti", testimonianze primarie della persistenza del "particulare" e dello "spirito di fazione" dal rilievo sconfortato della quale il saggio prende le mosse.

Egli era lontano dal prevedere che, di lì a pochi mesi, i cespugli sarebbero stati spazzati via proprio grazie alle norme elettorali "berlusconiane", demonizzate dalla sinistra, avverso le quali altissimi e sguaiati erano stati i suoi lai. Di tale evento, presso che miracoloso e, si ripete, del tutto fuor di previsione, sia lode imperitura al soprassalto di dignità che ha indotto la stragrande maggioranza degli elettori a cassare detti gruppuscoli e individui, archiviandoli, si spera definitivamente, nel museo archeologico della politica e anche all'ostinazione con cui Silvio Berlusconi ha sostenuto la norma elettorale che, a detta degli avversari, avrebbe arrecato ulteriori guasti e moltiplicato il frazionismo e che, invece, ha semplificato enormemente il quadro politico-parlamentare, reificando, finalmente e vivaddio, il Comunismo nell'inferno dei ricordi ove permangono pietrificati gli orrori della storia. (Luciano Lelli)

 

23122007   La politica italiana tra ossessione del particulare e utopia del bene comune

Prendo le mosse da una tesi sostenuta da Francesco Guicciardini nel suo testo Ricordi: “è certo che non si tiene conto de’ servizi fatti a’ populi e agli universali, come di quegli che si fanno in particulare, perché toccando al comune, nessuno si tiene servito in proprio; però chi si affatica per e’ populi e università, non speri che loro si affatichino per lui in uno suo pericolo o bisogno o che per memoria del servizio lascino una sua commodità”.

Nella locuzione appena trascritta, così come in altre riflessioni similari che costellano l’opera sua, Guicciardini raffigura con icastica lumeggiatura il connotato peculiare e imprescindibile del costume italico, ovvero sia l’inclinazione irresistibile appunto al particulare, all’affermazione ad ogni costo degli interessi individuali ed egoistici, a scapito implacabile di quanto, con formula felice e purtroppo totalmente oltraggiata, viene identificato come bene comune, prevalenza del diritto di tutti (quindi di ciascuno) rispetto alle pretese di ogni “singolo”, forse meglio dei pochi, smaniosi e in grado di sovrapporre il proprio desiderio di primazia e di rapina all’equilibrata e armonica convivenza dell’intera comunità.

Il gusto per il sapore stordente del particulare, nelle pratiche sociali italiane, è costantemente intrecciato, meglio confuso, con lo spirito di fazione, anch’esso tratto caratteristico permanente dell’attitudine espressiva delle genti italiche (per facile e ovvia riprova dell’assunto, si fissi la mente sulla feroce contrapposizione, nel Medioevo, tra i comuni e dentro il tessuto degli stessi, quindi, lungo la linea diacronica a volo d’uccello visionata, sull’ostilità a tutto campo tra Ghibellini e Guelfi, tra Bianchi e Neri in Firenze, sull’antagonismo, condito di servile condiscendenza, tra partigiani della Francia e tifosi della Spagna, nel sedicesimo secolo prevalentemente).

Per secoli e fino a epoca assai recente, l’antinomia, costitutiva dell’antropologia italica e irrisolvibile (appunto perché miscela non discriminabile di vocazione al particulare e di pulsione dello spirito di fazione), si è esplicata come controversia al diapason dell’asprezza non già tra due identità unitarie, ma tra due poli aggregativi, capaci di far confluire entro macro contenitori comunque assimilanti le spinte centrifughe dei particolarismi ideologici.

Siffatta circostanza ha portato in auge e resa fiammeggiante la dialettica ideale e politica tra cattolici e laicisti, tra fascisti e antifascisti, tra democristiani e comunisti, tra le cosiddette destra e sinistra, di recente.

Negli ultimi anni – fissiamo quale paletto cronologico convenzionale l’esordio del terzo millennio – nessun progresso si è verificato verso una logica di conciliazione, di attenuazione delle differenze effettive o fittizie, comunque a gran voce gridate. È anzi accaduto il contrario, per cui nella sciagurata attualità che ci tocca (anche per generalizzate insipienza e sordidezza) la vocazione frazionistica impazza, l’affermazione esasperata delle dissomiglianze (quasi sempre, ripeto, artificiosamente e senza alcun fondamento razionale sostenuta) attosca la civile convivenza e i precari amici di ieri diventano in un batter d’occhio i nemici (non gli avversari) di oggi.

L’incidenza dell’endemica doppia pulsione (all’emergenza del particulare e alla prevalenza dello spirito di fazione) è divenuta nella temperie corrente epidemica, con fasi di catastrofica acutezza in specie nel terreno dei rapporti politici: si soffermi in proposito l’attenzione, entro la cosiddetta Casa delle Libertà, alla progressiva, urlata divaricazione tra Forza Italia, UDC e Alleanza Nazionale; sull’altro versante della barricata si valuti la biforcazione antagonistica tra la sinistra se dicente moderata e quella senz’altro designabile estremista e fondamentalista. Anche si consideri, con riferimento esemplificativo ulteriormente dilatato alla genia dei politicanti, la problematica coesistenza, nello stesso gruppo (il Partito Democratico) – confezionato con “fusione a freddo” del tutto priva di radici e fondamenti valoriali – dei due spezzoni “ossimorici” in esso confluiti (scampati tra l’altro a una brutta storia, che già li annoverò residenti in fazioni tra di loro fieramente ostili).

Dall’avvio del corrente millennio, anche quale conseguenza dell’estinzione, dopo il 1989, delle connotazioni ideologiche tradizionali, si è dunque verificato (i rilievi appena sopra qua e là sparsi testimoniano l’infausto evento) uno sventurato  transito da una contrapposizione quasi fisiologica e in certo senso pacificata tra due poli aggregativi, largamente persistenti e prevedibili nelle loro evoluzioni, a una sorta di bellum omnium contra omnes, nella follia del quale gli amici formalmente sodali possono venire più avversati dei nemici “storici” ed esponenti di questi ultimi diventano invece commendevoli compagni di strada e d’avventura se mutano gabbana e si dichiarano folgorati sulla strada di Damasco dalla luminosità dei convincimenti fino a ieri osteggiati.

L’implementazione rilevata del tasso già cospicuo di litigiosità e la proclività dei politicanti a saltare scriteriatamente i confini ideologici e valoriali, nonché a conformare i propri comportamenti gestionali alle male regole del ricatto e dell’egemonia sfrenata del particulare, hanno provocato una enorme lievitazione del degrado e del declino di tutti, etico, culturale, economico. E il bene comune, che dei reggitori della cosa pubblica dovrebbe essere la stella polare perennemente emanante vivida luce, sempre più e con più accentuato cinismo resta malinconicamente confinato sullo sfondo, negletto, dileggiato, violentato.

Nel panorama “socio-esistenziale” a larghe maglie or ora tratteggiato, allignano due ulteriori inclinazioni dominanti, entrambe colossali per tasso di negatività: il “culto della personalità” del leader momentaneamente al vertice (ammannito in tutte le salse da televisioni e altri veicoli comunicativi ai disgraziati sudditi, condannati non solo alla diuturna degustazione di grugni ghignanti, a fatica discernibili da altra parte anatomica che solitamente le persone ben costumate celano nei recessi delle più intime vestimenta, ma anche, purtroppo, alle ossessive esternazioni foniche del medesimo “unto del Signore” – nessuna allusione diretta, nella metafora, a Silvio Berlusconi –, su qualsivoglia tematica egutturante, quasi sempre oracolo sentenziante spaventose banalità e sbrindellati arroganti deliri).

Spesso poi, per soprammercato ulteriormente devastante, il culto del leader è auto-esaltazione di sé quale taumaturgo: in tale pratica connotabile come “mistica della turlupinatura” maestro impareggiabile è il non commendevole individuo Romano Prodi, in sé quintessenza di ogni inettitudine a bene operare eppure implacabile nell’inventare e nel vantare i suoi supposti meriti, dall’irritante  personaggio gridati – bofonchiati anzi – nelle orecchie della gente del medesimo schifata, in spregio e a beffa di qualsivoglia effettiva evidenza.

Il secondo tumore che attosca e rende invivibile questo squinternato Paese è la feroce determinazione al ricatto delle infime fazioni politiche (cespugli, nanetti) annidati all’ala sinistra (soltanto ad essi qui ed ora mi riferisco, ma in verità han sodali anche in altre caselle della scacchiera politica complessiva) dello schieramento grottescamente detto l’Unione, attualmente al potere selvaggiamente applicato nell’arrecare il massimo tasso possibile di danno al bordello che per sua precipua responsabilità è diventata l’Italia (io ritengo che più acconcia designazione al momento non si dia per marchiare i menzionati partiti e partitucoli della locuzione “fascisti rossi”).

Li connota una perversione che nell’attuale contingenza è di loro pertinenza esclusiva: seguitare a esistere sulla scena gustando la fettona di potere inopinatamente arraffata, anche se con tutta evidenza l’unica evoluzione salvifica per il Paese sarebbe la loro immediata espulsione dalle stanze dei bottoni e, magari, la loro estromissione dall’agone parlamentare, tramite un provvidenziale cambiamento delle regole che impedisse a siffatta tigna di continuare nella rovina dell’economia e della convivenza nazionali.

Invece niente, per ora, detti fondamentalisti traggono forza dalla debolezza dell’esecutivo che li ingloba, lo ricattano da mane a sera e fino all’alba del dì seguente, nella lubrica acquiescenza dell’uomo ghignante di Scandiano che, pur di permanere ad ogni costo assiso sul mucchione di sabbia del suo svaporante potere, è succubo di ogni arroganza, piega il testone accondiscendente all’egutturazione di ogni delirio, dei Comunisti Italiani, di coloro che il medesimo comunismo morto e putrefatto smaniano di rifondare, dei sé dicenti Verdi, d’altri relitti dell’archeologia marxista, che dalle allucinazioni pseudo palingenetiche per tutta l’esistenza delibate proprio non ce la fanno a divellersi. Della vocazione al particulare, dello spirito di fazione e dello spregio per il bene comune le masnade or ora evocate sono campioni da nessuno equiparabile.

Butto l’occhio investigante a ritroso sopra il 2007 ormai vivaddio all’epilogo: forse annus horribilis più apicale mai è stato inflitto alla derelitta, comatosa nazione italiana.

Come appena sopra con ogni amarezza notificato, è rimasto disgraziatamente in arcione l’abominevole “sgoverno” capeggiato dall’individuo Prodi, fuor di dubbio il maggiore se pur non esclusivo responsabile dei guai che affliggono l’oltraggiata nostra Penisola.

Ribadisco che un solo tratto comportamentale di esso risulta innegabile ed ugualmente uno solamente lo spasmodico impegno che persegue: rimanere ad ogni costo abbarbicato alle poltrone installate in tutte le stanze del potere, non mollare neppure uno sgabello, anche se l’esito di una tanta mostruosa inclinazione/ostinazione è la più catastrofica rovina della gente d’Italia.

Entro la cornice la cui tipologia sto evidenziando per accorati e risentiti cenni, si amplia con progressione inesorabile la distonia tra cittadini e istituzioni, lievita man mano la sfiducia nell’ordine sociale costituito e nei suoi indegni rappresentanti, ulteriormente si attenua, con evoluzione che pare inesorabile, la già assai precaria identità nazionale, il cedimento all’invasione delle orde barbariche dei clandestini (dei nemici islamici in prevalenza) è diventata prassi cieca e scervellata, la crisi economica e l’impoverimento collettivo, non contrastati, agevolati anzi, dalla insipienza dello sgoverno son giorno dopo giorno più incombenti e abissali, un declino ineluttabile schiaccia l’Italia, in giorni recenti con analisi impietose rilevato in articoli pubblicati nel New York Times e nel Times, alla cruda perentorietà dei quali pietosamente (per l’inane, rituale pochezza delle argomentazioni) s’è sentito in dovere di controbattere negando Giorgio Napolitano, uomo purtroppo segnato da una storia personale d’adesione fervida al veterocomunismo di matrice staliniana (sia pure, ovviamente, temporibus illis), fiondato alla prima magistratura della Repubblica dalla fazione multicolore aggrumata attorno al Prodi, in totale spregio dell’ovvia opportunità di eleggere al Colle persona meno condizionata dalla contiguità ideologica con una utopia di paradiso in terra concretizzatasi in forma di spaventoso inferno, capace di aggregare attorno a sé un ben diverso, più partecipato e trasversale consenso.

La negazione del declino italico da Napolitano professata un solo effetto ha generato: una assai diffusa constatazione che del grave malessere del Paese proprio colui che ne occupa la presidenza appare in modo “struggente” l’emblema e l’incarnazione (è fuor di dubbio comunque che il personaggio da gran tempo s’è divelto dalla compromissione con uno dei due apici del male nella Storia: ma nel contesto della mia concezione etica “calvinista” da certe inclinazioni per anni e anni coltivate con mistica passione non v’è possibilità di riscatto e purificazione integrali).

Nelle settimane a ridosso di questa fine d’anno tanto tribolata, sono infine “venuti al pettine” nodi drammatici, che per mesi si sono voluti ostinatamente ignorare e annientare, malgrado le poche voci clamanti nel deserto di sparute, sbeffeggiate cassandre: il caravanserraglio di Prodi nell’aprile 2006 le elezioni non le ha vinte; al massimo ha conseguito un risicato pareggio o, più probabilmente, ha trasformato in infinitesimale prevalenza numerica la sconfitta quantitativa subita, con truffe e imbrogli, che sono da sempre espedienti assai praticati con sopraffina perizia, da comunisti e sodali d’occasione.

Malgrado l’evidente non vittoria elettorale, quali sono stati il pensiero d’esordio e l’azione d’avvio della scalcagnata compagine riuscita ad arraffare il potere, a estromettere – per volere “divino” e destrezza manipolatoria – dallo stesso l’aborrito e, secondo il suo delirio, nefasto Silvio Berlusconi?

La sistematica, illiberale, devastante occupazione di tutte le cariche, la collocazione dei pezzi da novanta e dei capetti, famelici invero più che robustamente appetenti, in tutti i posti anche collegati all’erogazione di sostanziose prebende.

Il varo, subito a seguire, di una ipertrofica squadraccia governativa, la più immondamente farcita di ministri, viceministri e sottosegretari nell’intera storia (per questo aspetto in sé null’affatto esemplare) dello stato repubblicano d’Italia.

Poi non si contano, in poco più d’un anno di occupazione del potere, i comportamenti della sé dicente maggioranza oltremodo disdicevoli: arroganza gestionale espansa ai livelli massimi di intollerabilità, impudente e ostentata vocazione a ogni più esiziale stratagemma, pur di tenersi a ogni costo aggrappati alle poltrone di comando.

Valgano, a riprova della pertinenza dell’illustrazione di un quadro che più fosco di così non potrebbe essere, due constatazioni, del resto crudamente sotto gli occhi di tutti: il Senato della Repubblica (nel quale l’Unione disunita è in minoranza quantitativa, per quanto concerne i suffragi elettorali ad essa attribuiti) è stato tenuto per mesi sostanzialmente chiuso e le volte in cui proprio non lo si poteva mettere in almeno formalistica azione si è proceduto a colpi di “voti di fiducia”, a determinare l’esito dei quali immancabilmente sono intervenuti i senatori a vita, individui antitetici rispetto ad ogni corretta prassi legislativa, perché da nessuno eletti, di nessuno rappresentanti, vecchissimi (in ogni senso) signori e signore che, così strangolando lo spirito della democrazia, si sono arrogati il diritto di decidere loro l’orientamento politico del Paese e la permanenza in sella del catastrofico governo dei prodiani, a irrisione delle scelte dei parlamentari effettivamente rappresentativi della volontà popolare e del più che evidente desiderio di cambiamento radicale esplicitato dalla stragrande maggioranza degli italiani.

La seconda sottolineatura (ma il florilegio delle dimostrazioni potrebbe essere oltremodo espanso) è il ribadimento d’una manifestazione d’orrore già esternata anche in questo scritto: assatanato dalla mania  e dall’ossessione di durare ad ogni costo dentro la tana inebriante di un pur soltanto formalistico potere, l’individuo Prodi sistematicamente e sempre si è supinamente assoggettato alla voglia di saccheggio, rapina, vendetta e distruzione dei fascisti rossi della sinistra estrema (aggregazione di illusi conficcati nelle tenebre della preistoria – quantitativamente  abbastanza consistente e proliferante, in verità, a ulteriore esplicitazione dell’impetuosa vocazione all’a-razionalità che alligna nella gens italica), vero e proprio tumore che impedisce ogni prospettiva di sviluppo della derelitta nostra Nazione, fascisti rossi davvero implacabili e insaziabili nella voluttà di ricatto al tizio Prodi, bisognoso – come s’è ad abundantiam notificato – senza remissione del loro foraggio di voti, per seguitare a fungere da capociurma, risoluto a qualsivoglia ulteriore cedimento pur d’avere ancora mano libera nell’infliggere enormi, progressivi danni a questa frastornata e oltraggiata Penisola.

Quid facere, in un panorama tanto procelloso, intriso di prospettive d’ulteriore esiziale peggioramento, se, tutto nonostante, ci si vuole ostinare nella coltivazione di un sempre più arduo e improbabile vagheggiamento di palingenesi?

Ogni previsione radicata in valutazioni razionali della situazione immanente è alea assoluta, su ciò non v’è dubbio. Prevale comunque la prefigurazione, fidando in esclusiva nel pessimismo della ragione, che la catabasi seguiterà a lievitare inesorabile. Se invece, ammutita la cassandra realistica che profetizza la catastrofe alle porte, ci si ammanta comunque di utopia e si crede ancora nella redenzione dall’egemonia del particulare e dello spirito di fazione, questi che a seguire pongo in scena sono i provvedimenti i quali con ogni celerità si dovrebbero adottare.

Innanzi tutto l’estinzione immediata dell’insana esperienza di malgoverno gestita da Romano Prodi, con contestuale espulsione dal tempio, con ignominia, anche dei fascisti rossi i quali, come s’è rilevato e ribadito, dall’uomo in questione sempre soddisfatti nei ricatti che giorno dopo giorno hanno interposto pena la sottrazione del loro puntello, condividono con il medesimo la responsabilità dello sfacelo in cui è sprofondato il Paese.

Quindi necessiterebbe l’emersione di un clima politico radicalmente diverso, in cui incombesse prioritaria l’intenzione di mirare sempre, comunque e prioritariamente al bene comune di tutti e di ciascuno, azzerando la pretesa di dominio degli ideologismi pregiudiziali e velleitari, trasformando l’esercizio delle responsabilità politiche da pratica del potere maneggiato per personale tornaconto economico e soddisfazione egoistica della voluttà di primeggiare a duro, faticoso, per nient’affatto allettante servizio alle persone, il quale tra l’altro prevedesse esemplari e immediate punizioni al cospetto di acclarate inettitudini, venendo ad evidenza che la vocazione a dedicarsi al progresso dell’intera comunità  è stata sopraffatta dalla cupidità di approfittare dell’incarico rivestito per trarne vantaggi e privilegi.

In siffatto contesto d’una politica rigenerata è indispensabile che i due partiti di maggiore consistenza quantitativa, i sé da qualche tempo designatisi Partito Democratico e, forse, Popolo della Libertà, si accordino finalmente in spirito di tregua dalle astiose reciproche delegittimazioni e diano vita, per i mesi o gli anni necessari, a una grande coalizione, la quale innanzi tutto metta a punto e capillarmente dissemini nel Paese alcune fondamentali “regole etiche”: in democrazia non si danno nemici ma persone le quali professano convincimenti e idee differenti. L’attività politica non consiste nella demonizzazione dell’ “altro da sé”, bensì nel serrato, assiduo confronto tra le idee in campo, mossi tutti dall’imperativo etico di pervenire – tramite appunto analisi compartecipate e apertura all’accettazione dei punti di vista altrui che evidenzino, sottoposti ad ogni lavorio di confutazione, efficace caratura operativa – a ipotesi condivise e collaudate, atte ad affrontare e risolvere i problemi della comunità nazionale.

Ancora, disintossicazione del clima politico significa distanza repulsiva avverso la smania dei pregiudizi ideologici (sciaguratamente risorti dopo che ci si era illusi circa la loro definitiva inumazione allorché collassarono e furono largamente ripudiate le grandi, esiziali ideologie novecentesche) di orientare a-razionalmente e aggressivamente i comportamenti individuali, sociali, politici.

Nel quadro così, con saggezza e sapienza, restaurato (sia chiaro non sto sognando ad occhi aperti ingenuamente mirabilia: sono ben consapevole di stare veleggiando nel regno di utopia) occorre poi (bisognerebbe) alitare fiducia e ottimismo, sì che le potenzialità incrementive facciano sempre aggio rispetto alla petulante pretesa delle difficoltà incombenti, degli ostacoli insorgenti, della paura del fallimento di persistere lamentosamente in primo piano, di dilazionare prudentemente ogni intervento, di giustificare tutte le inedie e le inconcludenze operative, di agghiacciare ogni pulsione verso la realizzazione di imprese eccellenti (detto in termini paradigmatici: è imprescindibile  pensare in grande se ci si prefigge di dar sostanza ad azioni di elevata caratura).

Sul piano più immediatamente amministrativo e gestionale, l’urgenza primaria è rendere possibile il varo di un governo stabile e duraturo in questa sbrindellata Italia, per eliminare drasticamente dalla scena il doppio micidiale gioco in auge da oltre cinquant’anni e consistente, sul versante di colui che è a capo dell’esecutivo (e del gruppo di politicanti che magari precariamente e in spirito di ricatto lo sostiene), nella combustione di tutte le energie non già nella retta conduzione della res publica a vantaggio dell’intero corpo dei cittadini, bensì nell’erculeo sforzo di persistere comunque abbarbicato ad ogni costo alla sella dell’indisciplinabile destriero (anche quando, come nel caso del più volte sopra evocato in causa sé dicente premier Romano Prodi, del tutto auspicabile sarebbe che il suo ciccioso fondoschiena franasse infine giù dalla groppa della bestia governativa, fatta caracollare come peggio non si sarebbe potuto).

Sul versante degli oppositori d’ogni reggitore pro-tempore dei patri destini, l’improvvida architettura statuale tracciata nella vecchia Costituzione del 1948 (con motivazioni forse fondate e comprensibili in quella contingente temperie storica) ha fatto sì che, per sessant’anni giusti, appena varato l’esecutivo, le fazioni ad esso avverse mai abbiano collaborato  con lo stesso – nel condiviso perseguimento del bene di tutti – contrastando le sue idee e ipotesi di soluzione dei problemi con altre idee e ipotesi, in una logica di arricchimento e raffinazione delle opportunità operative, ma abbiano sempre sprecato interamente i magari esigui propri talenti nel gioco del lancio di palle al fantoccio, dell’abbattimento vale a dire del governo in carica, del tutto indifferenti alla prospettiva, infinite volte verificatasi, che l’esecutivo sopravvenuto fosse anche meno presentabile e atto a bene operare di quello buttato giù, soltanto smaniose di riavviare quanto prima l’aberrante esercizio del tiro al piccione.

Si può mettere una pietra tombale sopra un siffatto maligno artifizio e come?

Le riforme istituzionali, delle quali al momento tanto si ciancia, con la determinazione diffusa di non procedere però oltre le espressioni di chiacchiera, potrebbero fornire un contributo rilevante al rinvigorimento dello spossato organismo nazionale.

In primo luogo operando affinché i cespugli, i “nanetti”, sorti come funghi senza parvenza alcuna di utilità e sociale sensatezza (per via della sempre attiva, perniciosa riproposizione di sé dello spirito di fazione) , non abbiano più, per la propria macroscopica inconsistenza numerica, rappresentanza parlamentare di sorta e siano così annientate le pulsioni al ricatto, le pretese di condizionamento di infime minoranze che, in specie negli anni più recenti, hanno attoscato oltre ogni limite di tollerabilità la vita politica e civile, arrecando alla disgraziata e sciagurata gente d’Italia danni incomputabili.

La potatura senza remissione dei cespugli anche dovrebbe frenare la cupidità dei capetti di seconda schiera al frazionismo, apprendisti stregoni i quali – svariate volte è accaduto in passato e tuttora avviene – “secedono” dalle case partitiche madri in cui sono cresciuti e ingrassati, motivando la fuoriuscita con l’insorgenza di invero invisibili differenziazioni valoriali e ideali, in effetti del tutto pretestuose e fittizie; ragione delle defezioni infatti è quasi sempre la voluttà di diventare leaders, sia pure di gruppuscoli microscopici, nei quali inevitabilmente confluiscono politicanti senza arte né parte, vogliosi di venire così ammessi nell’empireo della “Casta”, di fruirne le prebende e i connessi altri privilegi.

Essendo però da decenni il dramma politico egemone di questo squinternato Paese l’ingovernabilità, unica soluzione davvero efficace sarebbe por mano alla Costituzione del 1948 – ormai un vero e proprio relitto storico (almeno nelle parti che riguardano la configurazione e il funzionamento dello Stato) – per ridisegnare ab imis l’assetto istituzionale. Dico qui alla grossa, mettendo in scena idee d’innovazione basilari che necessiterebbero d’un approfondito lavorio tecnico per messa a punto concreta e affinamento.

Basta con la paralizzante preponderanza del Parlamento rispetto al potere esecutivo: sia compito esclusivo, di certo non di poco conto, di deputati e senatori (enormemente sfrondati in quantità e differenziati gli uni dagli altri per quanto riguarda le attribuzioni) l’emanazione di norme giuridiche essenziali, efficaci, tempestive, di buona fattura formale e sostanziale. Si unifichino le figure del presidente della Repubblica e del capo del governo, affidando in esclusiva la scelta del supremo rappresentante e reggitore della Nazione al popolo, sì che l’eletto solo al popolo risponda per l’intera durata del suo mandato (quattro anni, replicabili una volta soltanto?) e non sia possibile scaraventarlo giù di sella tramite gli intrighi di palazzo che da sessant’anni sono in Italia il trastullo di gran lunga preferito sia delle maggioranze che delle opposizioni, nel lasso di tempo menzionato ad ogni pie’ sospinto succedutesi (magari l’auspicio è che la Nazione sappia trascegliere a propria guida “pastori”, per esemplificare, meno inetti, arroganti, libidinosi di vuoto potere, impresentabili dell’individuo Romano Prodi).

Quanto sopra abbozzato ha qualche probabilità di venire alla luce, saranno capaci di por mano ad autentiche, palingenetiche riforme i politicanti italiani, tra di essi quelli che la metamorfosi travolgerebbe, pugnalandoli nell’esercizio perenne del loro particulare? Ovviamente no, senz’ombra di dubbio.

E allora? Non rimane che riporre una fiammella di speranza nella celebrazione del referendum, sulla legittimità del quale la Corte Costituzionale si accinge a sentenziare.

Presso che compatta la Casta sta manifestando la propria contrarietà all’evento, in specie i rametti secchi e gli inutili cespugli lo avversano con orrore. Fosse solo per ciò, esso è cosa buona e giusta. Pertanto va sostenuto e portato alla pronuncia della gente. Perché al momento tutto ciò che spariglia, mette a soqquadro le ritualità e i tatticismi dei nullafacenti e sé alimentanti della politica senz’altro giova all’estrema utopia di redenzione dell’Italia reificata a bordello.

  Luciano Lelli