Premessa, a distanza di anni

 

Quasi tre anni e mezzo sono trascorsi dalla redazione dello scritto che qui si ripropone. Per quale ragione l'argomentazione viene riesumata? Perché essa rappresenta una testimonianza presso che esemplare degli "astratti furori" che nel momento della redazione del testo  agitavano quasi ossessivamente l'autore, al cospetto di un governo reputato operativamente inetto ed eticamente riprovevole e di un Paese oltremodo sconcertato e avvilito, anche a causa del miserevole spettacolo di sé dato ai cittadini da quella compagine politica. 

Nessuna remora pertanto nell'ammettere che la rilettura - a distanza abbastanza protratta di tempo e in un contesto civile, sociale ed economico molto diverso, per certi aspetti drammaticamente peggiorato per via della micidiale crisi economico-finanziaria internazionale - delle rilevazioni concernenti le peculiarità della politica italiana di quel periodo evidenzia, nell'estensore, uno spirito polemico estremamente acceso e risentito, attinente di certo alle specificità gestionali della cosa pubblica assai negative poste in essere dal governo nazionale di quel momento fortunatamente breve, spirito polemico nel quale l'autore oggi non si riconosce più integralmente, convinto il medesimo che, forse, saggio e avvalorante è traguardare tutte le vicende umane, anche quelle più esiziali per il bene comune, con atteggiamento di pietas e atarassica commiserazione.
L'autore, allorché ha redatto lo scritto, era ben consapevole della sua specificità di genere, in quanto
pamphlet vergato con penna costantemente intinta in inchiostro tossico, quindi intenzionalmente condizionato dalle consuetudini espressive di siffatta categoria letteraria (di tale innegabile specificità egli dà più volte ragione, menzionandola lungo l'elaborazione).

Per quale motivo, anche valutato che dopo le elezioni del 2008 il quadro è completamente mutato ed ora governa la coalizione politica che egli ritiene assai più acconcia della precedente a bene servire il Paese, l'autore si è risolto a ripresentare la risentita argomentazione, per certi versi quindi anacronistica, hors de page? L'ha fatto avendo tratto dalla rilettura diletto estetico, accortosi che il saggio, largamente superato nelle sue intenzioni di rappresentazione e denuncia contingenti, in certo senso è trasmigrato dalla critica politica alla letteratura, nella quale per altro già almeno con un piede risiedeva.

Tutto ciò doverosamente specificato, in merito a tre nuclei argomentativi, su due dei quali l'elaboratore è stato fatto oggetto di critiche feroci e denigratorie, egli ritiene opportuno appuntare le postille che seguono (le quali sono quasi senza modifiche qui trasferite da altra premessa attuale d'un saggetto analogo redatto nel medesimo fosco anno 2007, il quale pure provocò sul capo dell'elaboratore il riversamento di un profluvio di contumelie).

 

Per quanto riguarda la persona di Romano Prodi, in quel tempo presidente del Consigli dei Ministri, per buona sorte degli italiani sbalzato via dalla funzione tramite una sorta di congiura di palazzo, l'autore del saggio riconosce d'aver adoperato un linguaggio sempre aspro e intriso di pulsione deprezzativa che, per il motivo sopra accennato, più opportuno sarebbe stato annacquare, emotivamente isterilire. E' fuor di discussione che il personaggio suscita nell'estensore della riflessione una incontrastabile antipatia e che lo ritiene singolarmente inetto come reggitore della cosa pubblica. Ma, fortunatamente, ormai è uscito di scena, definitivamente, come quasi tutti sperano. Pertanto anch'egli, malgrado il danno arrecato al Paese (prima alla comunità europea) con la sua spiccata incapacità di governo, è bene, almeno oggi sogguardare con distacco, venato di leggera ironia, non più di impetuosa ostilità.

 

Nel testo viene male trattato anche  Giorgio Napolitano, pro-tempore presidente della Repubblica, per ragioni nella medesima elaborazione esplicitate. In specie le espressioni "irriguardose" nei confronti del capo dello Stato sono state ritenute dissacratorie dai paladini della sinistra, tanto da indurli a una interrogazione parlamentare (in occasione d'una esposizione pubblica dell'autore, quale dirigente tecnico del MIUR incaricato di valutare i comportamenti professionali d'una pattuglia di insegnanti che avevano platealmente rifiutato, sbeffeggiandolo con il rifiuto della disposizione, il ripristino dei voti numerici nella scuola primaria).
In proposito si specifica quanto segue. L'estensore del testo rieditato continua a non provare sentimenti amicali nei riguardi del presidente della Repubblica, sia per le posizioni da lui assunte, in quanto giovane dirigente di vertice però del partito comunista italiano,  in occasione  della  rivolta antisovietica degli ungheresi nel 1956, sia per le modalità della sua elezione alla suprema magistratura della Repubblica, disposta da poco più della metà dei rappresentanti del popolo (mentre colui che rappresenta costituzionalmente l'unità della Nazione bene ed etico sarebbe che venisse trascelto da una più ampia maggioranza).
Ciò ribadito, a metà ormai del suo mandato presidenziale, onestà intellettuale e volontà di non soggiacere troppo allo
spirito di fazione costringono il compilatore dell'argomentazione a riconoscere che la funzione di presidente della Repubblica Giorgio Napolitano la sta interpretando con estremo decoro, alto equilibrio istituzionale, con atteggiamento sempre super partes e alieno da ogni sudditanza anche nei riguardi di coloro che ideologicamente pure sono i suoi sodali storici.

Gettando uno sguardo a ritroso lungo la più recente storia italiana, l'autore non ha dunque oggi remora alcuna ad ammettere che Napolitano, nell'esercizio della suprema magistratura di cui è stato sia pure in immanenza di astiosa contrapposizione partitica investito, sta mettendo in campo uno stile gestionale, una vocazione pedagogica, una propensione al perseguimento del bene comune certamente ben più eminenti di quelli degli immediati predecessori, Francesco Cossiga, Oscar Maria Scalfaro, Carlo Azeglio Ciampi.

 

Una delle specificità della politica italiana che, a inizio 2007, al redattore del testo di cui qui si tratta sembrava più fastidiosa e deleteria era la presenza e l'azione d'una pletora di minuscoli partiti arroccati a sinistra del PD, fieri della loro matrice comunista, determinati a condizionare ad ogni costo il governo del tempo, non recedendo dinnanzi al ricatto, al delirio ideologico, alla saccenteria e all'arroganza dei fondamentalisti che danno per scontato e certo di fornicare diuturnamente con la verità, la giustizia e il superiore bene del popolo. L'elaboratore dell'argomentazione qui riproposta arrivava ad auspicare provvedimenti drastici atti a disboscare il panorama politico dagli insopportabili "nanetti", testimonianze primarie della persistenza del "particulare" e dello "spirito di fazione" che sono, nella plurisecolare storia politica italiana, vegetazione tossica presso che inestirpabile.

Egli era lontano dal prevedere che, di lì a poco più d'un anno, i cespugli sarebbero stati spazzati via proprio grazie alle norme elettorali "berlusconiane", demonizzate dalla sinistra, avverso le quali altissimi e sguaiati erano stati i suoi lai. Di tale evento, presso che miracoloso e, si ripete, del tutto fuor di previsione, sia lode imperitura al soprassalto di dignità che ha indotto la stragrande maggioranza degli elettori a cassare detti gruppuscoli e individui, archiviandoli, si spera definitivamente, nel museo archeologico della politica e anche all'ostinazione con cui Silvio Berlusconi ha sostenuto la norma elettorale che, a detta degli avversari, avrebbe arrecato ulteriori guasti e moltiplicato il frazionismo e che, invece, ha semplificato enormemente il quadro politico-parlamentare, reificando, finalmente e vivaddio, il Comunismo nell'inferno dei ricordi ove permangono pietrificati gli orrori della storia. (Luciano Lelli)

 

20012007   Della catabasi di questa sciagurata Italia, datasi tra le grinfie dei fascisti rossi

Da circa nove mesi una accozzaglia di faziosi sgoverna l’Italia. Per la cecità e la dabbenaggine di metà degli italiani che, nella consultazione elettorale dell’aprile scorso, ha optato per l’immondo schieramento che ora gozzoviglia nelle stanze del potere; ciò in odio a Silvio Berlusconi. Subito dopo il cambio della guardia nella responsabilità di reggere le sorti del Paese, molti di coloro che hanno scelto la banda Prodi si sono pentiti e se oggi si ripetesse l’operazione di voto la medesima incorrerebbe in una disfatta annichilante: ma ormai il delitto è perpetrato e, prima di riuscire a scrollarsi via di dosso l’abominevole sanguisuga assatanata di brama di comando e distruzione, i malcapitati e straniti italiani dovranno patire versando “lacrime e sangue”.

All’inizio della turpe disavventura, formulai presagi molto foschi circa le sorti di questa dissennata Italia: ma ero in verità lungi dal preconizzare un simile disastro. Perché mai, nella storia dello stato unitario italiano, un altro governo in così breve lasso di tempo si è reso protagonista di tante scelleratezze. A riprova propongo qui un elenco argomentato ma solo parziale delle nefandezze con le quali si è finora dilettato a comune danno l’esecutivo prodiano egemonizzato dai fascisti rossi, premettendo alla ricognizione una eventualità assai inquietante.

È molto probabile, dunque, che la masnada unionista-ulivista non abbia affatto prevalso, nella competizione elettorale. Non è da escludersi, infatti, che l’infima differenza di voti tra i due schieramenti (0,006) sia ascrivibile a truffe e brogli elettorali. Al di là del sospetto assai generalizzato non ci sono, per ora, prove inconfutabili di malversazioni e quasi certamente le stesse non emergeranno mai: ma non si può non asserire con risolutezza che l’inclinazione alla frode è da sempre iscritta nel codice genetico del comunismo e dei suoi adepti (io stesso ne ho più volte constatato la manifestazione, in occasione delle mie remote esperienze di presidente di seggi elettorali). In passato le manipolazioni dei risultati hanno influito solo marginalmente, stante uno scarto generalmente ampio tra vincitori e perdenti: nella corrente circostanza l’abitudine alla furfanteria può avere addirittura determinato l’esito!

Prima esibizione di sconcezza etica e politica: l’occupazione selvaggia di tutte le cariche istituzionali. Avendo prevalso (forse) per un soffio, il centro sinistra, se fosse stato costituito da individui almeno decenti, avrebbe subito cercato un’intesa con la controparte, per collocare ai vertici dello Stato e alla presidenza dei due rami del parlamento persone davvero in grado di rappresentare tutti, quindi scelte da una ampia percentuale di deputati e senatori, di entrambe le coalizioni. Invece, prepotenza e aggressività immediatamente in azione, niente all’altra metà, cedimento alle pretese dei fascisti rossi di avere un proprio capoccia su uno scranno di primaria rilevanza, il Bertinotti, il quale tutto può combinare nella vita tranne che essere imparziale e super partes, in quanto individuo preistorico, insanabilmente attaccato alle proprie arcaiche farneticazioni ideologiche, con sommo spregio di tutte le sconferme della storia.

Particolarmente imbarazzante è il caso dell’ottantunenne Giorgio Napolitano, comunista, elevato alla suprema magistratura della Repubblica da metà dei rappresentanti del popolo italiano. Nutro da sempre infima considerazione per l’individuo, a causa dei suoi comportamenti in occasione della rivolta degli ungheresi contro l’oppressione sovietica del 1956, allorché quale eminente dirigente del partito comunista italiano non soltanto giustificò la repressione dei russi ma la sollecitò, per salvare le conquiste del proletariato internazionale dall’aggressione controrivoluzionaria del capitalismo occidentale, capeggiata dall’imperialismo americano. Non si può escludere che successivamente abbia mutato opinione circa le magnifiche sorti e progressive dell’internazionalismo comunista: ma certe collusioni con una potenza ideologica e militare incline a terrorismo e massacri (l’URSS ovviamente) marchiano un individuo senza possibilità di futuro riscatto, sul piano etico. Napolitano nel 1956 contava 31 anni: come mai non intese (o non volle capire) la reale natura della sollevazione ungherese e dell’intervento sovietico, che fu invece colta con precisione, per esempio, dallo scrivente, allora ragazzo di 14 anni?

Tiremm innanz. Fin dalle prime (tradizionali e sconcissime) manovre per la composizione del nuovo governo, è emerso con la più cruda evidenza che l’unico collante dell’eteroclita ciurma di litigiosi erano la smania e la mania del potere. Per saziare la voracità dei tanti sedenti al desco delle trattative, Prodi, ormai universalmente appellato Mortadella, e gli altri capibranco, irridendo ogni regola di funzionalità politica, di decenza etica, di economicità, in luogo di contenere i ministeri – come avvenuto nella precedente legislatura – li hanno moltiplicati, scindendo i precedenti e altri inventando, oltre a ciò imbarcando nel sinedrio una folla mostruosa di viceministri e sottosegretari, come mai era avvenuto nella pur esecrabile storia nostrana di costituzione dei governi. Oltre allo squallido spettacolo esibito senza vergogna agli occhi degli italiani, risultato dell’arraffa arraffa è stato una confusione inverosimile: conflitti e sovrapposizione di competenze, ministeri spariti e altri germinati come funghi, con campi di attività indecifrabili pure per gli inqualificabili raffazzonatori.

Al Senato della Repubblica, quindi ai cittadini dei quali esso è espressione, è stato inflitto un abominevole oltraggio: poiché in esso la maggioranza dei governativi è presso che inesistente, l’assemblea dei padri coscritti è stata emarginata e presso che vanificata, impedendole in pratica di operare. Le poche volte in cui è stata chiamata in causa, per il terrore di cadere sommersa dal voto contrario anche dei propri inaffidabili adepti, la masnada insediatasi al potere ha posto quasi sempre la fiducia, così impedendo al Senato di analizzare e discutere i problemi, di concorrere alla identificazione delle soluzioni legislative più contigue al bene di ciascuno e di tutti. Il governazzo sarebbe comunque cascato ugualmente: si sono assunti la poco onorevole mansione di tenerlo ritto in piedi, seppure sempre traballante, i senatori a vita, la maggioranza dei medesimi che, vecchissimi individui da nessuno eletti, relitti di una costumanza monarchica, savoiarda e borbonica, infischiandosene delle scelte dei cittadini (tornati così sudditi, ormai) ritengono legittimo far loro pendere la bilancia delle decisioni dalla parte che ai medesimi aggrada, quando invece, se giustizia e decoro sostanziassero questo Paese in sfacelo, si sarebbero sempre astenuti dallo schierarsi per alcuna delle fazioni in contesa, appunto perché da nessuno eletti, espressivi soltanto della loro non propriamente veneranda idiosincrasia ideologica.

Il malo governo che l’individuo perennemente ghignante Romano Prodi si compiace e s’illude di presiedere (anche se il poveruomo è diuturnamente costretto a sorbirsi i mugugni e le ostilità della sua umorale combriccola e fatica come un dannato ai lavori forzati per tenere ridotte nel precario suo ovile le pecore matte che lo contornano) un unico obiettivo ossessivamente persegue, esclusiva ragione di aggregazione della sfrangiata compagnia di ventura: lo smantellamento ad ogni costo, con cosmico spregio della sensatezza e della funzionalità dei provvedimenti in corso di sciagurata assunzione, del complesso di riforme messe in campo o almeno abbozzate dal precedente governo guidato da Silvio Berlusconi, probabilmente in grado di migliorare la qualità della vita degli italiani nonché l’efficienza dei principali strumenti almeno, dai quali spesso non poco è condizionata anche l’esistenza di ciascuna singola persona.

Potrei applicarmi a dire della cancellazione insofferente dei progetti inerenti le grandi opere, della cupidità di stracciare i provvedimenti concernenti l’amministrazione della giustizia, l’immigrazione clandestina, i trattamenti pensionistici, il cosiddetto federalismo, la comunicazione radiotelevisiva, .....; mi limito invece a una stringata disanima riguardante il sistema scolastico nazionale, poiché forse nell’atteggiamento adottato nei riguardi dello stesso dall’esecutivo di sinistra-centro consiste la testimonianza più clamorosa di fregola iconoclastica.

Dunque, per cinque anni Letizia Moratti si impegna allo spasimo per mutare i connotati di un pachiderma formativo che fa acqua da tutte le parti, i risultati del quale, oltremodo negativi in termini di competenze cognitive, sociali e relazionali dei giovani, stanno crudamente sotto gli occhi di tutti. Malgrado l’ostilità forsennata, feroce e criminaloide di cui il ministro Moratti è fatta oggetto, incredibilmente riesce nel suo intento, congegnando e legislativamente varando una riforma organica, dopo ottanta anni da quella sistematica e assai meritoria ma ormai obsoleta di Giovanni Gentile. Il neonato ancor fragilissimo edificio innovativo avrebbe avuto bisogno, per diventare concreto cambiamento positivo, di sapiente cura e assiduo sostegno normativo e implementativo: invece tutta intera la squadra di demolitori appena insediatasi nei palazzi del potere fremeva animata da una luminosa missione: abolire la Moratti, slogan urlato a squarciagola e con gli occhi iniettati di sangue. E il fine intento è stato puntualmente conseguito, con plauso principalmente ascrivibile all’attuale sagacissimo reggitore della Minerva: tramite un profluvio di interventini distruttivi operati con il cacciavite, poi con una mostruosa controriforma ficcata dentro il gran corpaccio laido della legge finanziaria. Qualcuno può obiettare: ma la modifica di provvedimenti ritenuti non risolutivi dei problemi è pertinente oltre che legittima. D’accordo, in linea di principio: nel caso in questione, però, per indisponibilità anche della più microscopica ideuzza miglioratrice, si è sic et simpliciter rifluiti nello status quo ante, la negatività del quale era universalmente sostenuta e gridata. Afferma con tono ispirato il capo del dicastero di viale Trastevere che i suoi interventi di cancellazione hanno lo scopo di ridare tranquillità e serenità al mondo della scuola turbato dalla smania riformistica morattiana: appropriato e nobile intento, da un canto; da altro canto però non si può non rilevare che i cimiteri sono i luoghi ove più vigono la tranquillità e la serenità.

Appena sceso in campo, per dirla alla Berlusconi, il governazzo targato Prodi Mortadella (absit iniuria verbis, per il gustoso salume immeritevole di qualsivoglia denigrazione) s’è subito buttato a capofitto in un gioco frenetico, talmente convulso da non lasciare intendere ai perplessi indigeni d’Ausonia la sua natura, se foot-ball, rugby, basket o qualcosa d’altro del tutto scervellato e sregolato. Mi riferisco alla stupefacente partita delle liberalizzazioni.

Dunque, con due interventi in sequenza, anzi, con due “lenzuolate” di provvedimenti, secondo la fine definizione adoperata dai mass-media e fatta propria anche dagli strologatori delle iniziative, il ministro Bersani (m’era parso in passato persona sensata e razionale) ha legiferato per mutare in quattro e quattr’otto le condizioni professionali e operative di taxisti, notai, avvocati, barbieri, giornalai, benzinai e altre categorie, con la motivazione che i cittadini da ciò avrebbero tratto consistenti vantaggi. Le decisioni adottate hanno mandato in bestia i gruppi professionali ed economici colpiti, che hanno corrisposto con ondate di scioperi. Lungi da me la presunzione di professarmi esperto di questioni economiche: però “a pelle” mi sembra che molte cose nei provvedimenti siano sballate e assurde. Innanzi tutto, pare che le categorie da mettere in riga siano state individuate a casaccio, con la tecnica “a chi la tocca la tocca” (ma qualcuno più malizioso e scafato asserisce che, in effetti, non è così: i soggetti da colpire sono stati trascelti con l’esplicita intenzione di punire quanti avevano negato con pubbliche dichiarazioni il proprio consenso elettorale alla congrega unionista; se effettivamente tale fosse la giustificazione delle identificazioni si sarebbe di fronte a un fatto di inaudita gravità).

In ogni caso detti provvedimenti, plateale esplicitazione della vocazione dirigista e statalista dell’esecutivo in carica, sono intrinsecamente iniqui: perché sottraggono delle facoltà a gruppi professionali ed economici per spalmarle su altri, senza ombra di reciprocità. Infatti, se tutti gli esercizi commerciali richiedenti possono vendere i giornali, perché a loro volta i giornalai non possono proporre ai loro così diradati clienti salumi, sale e tabacchi, mutandine per signora?

Ancora: davvero i guai finanziari del Paese e l’impoverimento della gente dipendono dall’avidità e dal cinismo (più che probabili, per altro) delle categorie menzionate e delle altre tutte di piccolo calibro stangate con le norme sulle liberalizzazioni? Come mai nulla il governicchio del duce di Scandiano osa contro i grandi potentati economici (le banche, gli imperi industriali, i grandi gruppi finanziari, le compagnie assicurative)? Forse perché i medesimi se attaccati sbatterebbero a terra in un amen gli spenti reggitori ascesi al potere anche grazie alla loro connivenza? Come mai la illuminata compagnia che tutti sgoverna non mette in cantiere la liberalizzazione di settori rigidamente controllati dalla mano pubblica, con i pessimi risultati che ciascuno può constatare (mi riferisco, per esempio, al sistema formativo, ai trasporti ferroviari e aerei, alla sanità)?

Non posso a questo punto evitare un indugio abbastanza protratto sulla grottesca, inverosimile vicenda della legge finanziaria. La messa a punto di tale dispositivo, essenziale nell’impostazione della vita economica del Paese, come macrocomunità e insieme di singoli individui, è stata senza ombra di dubbio la recita politica più paradossale, stupefacente e invereconda in tutta la storia dello stato unitario italiano.

Due locuzioni sembrano particolarmente calibrate per connotare i comportamenti del governo nella sua interezza e dei ministri uno ad uno apprezzati: “dilettanti assoluti allo sbaraglio” e “impudichi mentitori”. La grande impresa ha esordito con l’applicazione di una strategia davvero orripilante: imputazione al precedente esecutivo di disastri gestionali e finanziari apocalittici, tali da costringere l’attuale (pur composto da “cari” leader, tutti buoni, generosi, solleciti del bene del popolo) ad adottare terapie estremamente drastiche e dolorose che però saranno di grande giovamento collettivo “dopodomani” (si sa che nell’escatologia marxista la felicità non è mai “presente” ma perennemente procrastinata in un futuro più o meno prossimo venturo, nel quale infine risplenderà per tutti i sopravvissuti “il sol dell’avvenire”). Ciò, tenendo nel più assoluto non cale le smentite arrecate ai funerei annunci da dati e cifre, secondo cui, grazie alla pertinenza delle scelte economiche del buon governo di Silvio Berlusconi, la ripresa produttiva si stava avviando e le casse dello Stato registravano una consistente lievitazione delle entrate tributarie, non già per via dell’aumento dell’imposte ma del contenimento delle medesime! Del resto, non fu la buonanima di Josip Stalin – sodale (anche se a parole rigettato) di molti di coloro che oggi fornicano con il potere in Italia – a sancire, dall’alto della sua epistemologia di massacratore: i fatti falsificano le mie teorie? Tanto peggio per i fatti.

I fascisti rossi che giocano all’estrema sinistra della “gioiosa macchina da guerra” prodiana, mentre il gran corpaccio della finanziaria era in fase di concepimento, si crogiolavano nella golosa coltivazione di una intenzione: fare sì, con le norme da loro imposte, che “anche i ricchi piangano”. Proposito più demenziale e criminaloide non poteva essere formulato e perseguito: perché, oltre all’intrinseca amoralità assoluta dello stesso, gli sciagurati operatori di catastrofi, ciechi e sordi al cospetto di ogni lezione della storia, non albergano nei cervelli loro neppure il briciolo di comprendonio necessario per comprendere che, se i ricchi sono costretti a spandere lacrime, i poveri contestualmente dovranno sputare sangue.

Infatti, a misfatto perpetrato, in che cosa è consistita la mostruosa, aberrante, farraginosa finanziaria? In una lievitazione indiscriminata ed ebbra delle imposte (in cosmico spregio delle “promesse comuniste” urlate durante la campagna elettorale che le tasse loro non le avrebbero mai aumentate, abbassate anzi), la quale colpisce e impoverisce tutti tranne i ricchi (con gli innalzamenti dell’irpef nazionale, regionale e comunale, dell’ici, dei ticket per le prestazioni sanitarie, con un profluvio di altri balzelli). Fanno a tutto ciò corona marginali tagli di spesa, sforbiciate di modesta entità inferte qua e là a casaccio, senza mai toccare gli autentici nodi problematici, quelli davvero responsabili dello stato cattivo delle finanze nazionali (per esemplificare, in campo scolastico ci si prefigge un risparmio (iperminimale) buttando nella spazzatura Irre e Indire, sostituiti da una fantomatica “Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica”, evitando però con cura scrupolosa di mettere in questione i grandi sprechi e gli usi improduttivi delle risorse clamorosi anche in questo settore: perché altrimenti i fondamentalisti rossi avrebbero interposto il loro consueto ricatto, a salvaguardia dei miserabili miti di cui, fuor di senso e logica, si sostanziano).

Ritengo che mai prima dell’occasione qui analizzata i politici italiani abbiano fornito una dimostrazione più plateale della teoria secondo cui il nostro è il Paese ove impera incontrastato il “particulare”: con ministri, deputati, senatori e sindacalisti gli uni contro gli altri armati a difesa del proprio orticello, intenzionati a parole a fare sfracelli se gli interessi del medesimo fossero stati anche minimamente vulnerati. Per parare la convulsione dei veti, delle stoccate, dei contrattacchi e dei ricatti, è stato messo in scena un frenetico, paradossale balletto delle carte in tavola, sostituite in continuazione nel contesto di una confusione indescrivibile, di un bellum omnium contra omnes a cui il popolo ha assistito esterrefatto, giorno dopo giorno più ostile nei riguardi dell’ineffabile, inverosimile premier di Scandiano, pietosamente succubo e ostaggio della sinistra estrema conservatrice e preistorica.

Conclusione dell’inverecondo spettacolo è stata l’emanazione di una legge finanziaria oscena, anche formalmente inqualificabile, omnibus che tratta di tutto e del contrario di tutto, buttata sulla carta in lingua approssimativa, farcita di tutte le aberrazioni scritturali che possono schiantare un testo. In essa, tra l’altro, è stata ficcata dentro a forza anche la controriforma del sistema scolastico, in termini di massacro funzionale dello stesso. Insomma, per serrare infine con un tombino la cloaca, si è al cospetto del peggiore, più nefasto documento normativo emanato a comun danno in tutta la storia dello stato unitario italiano.

Insisto ancora un poco nell’esecrazione della beffarda indifferenza dei calamitosi governanti all’oceano di critiche e contumelie contro di loro da ogni parte saettate, nell’annotazione stupefatta della cecità anche al cospetto della caduta a picco dei consensi, indifferenza e cecità testimoniate in particolare dall’inquietante ghigno perenne sul grugno di Prodi e dalla fissità glaciale nella maschera facciale tragicomica del Padoa Schioppa, entrambi indefessi nel turlupinare gli esterrefatti italiani con la proterva menzogna che il massacro indiscriminato in corso è in effetti commendevole e saggia terapia, somministrata a perseguimento del loro bene futuro, che i medesimi, infanti e orbi, al momento non sono in grado di percepire ma che prima o poi apparirà loro nella sua luminosa evidenza ed allora il consenso e la riconoscenza ascenderanno a vette vertiginose.

Passo adesso a registrare alcune delle nequizie che il governaccio ha finora inanellato nel campo della politica estera. Sub signo dell’opposizione viscerale e cosmica nei riguardi dell’aborrito avversario Berlusconi, per ossequio all’infantilismo ideologico dei fascisti rossi, immediato ottenebramento della tradizionale alleanza con gli USA, presieduti, come si sa, dal nemico dell’umanità George Bush. E dunque istantaneo sbaraccamento delle truppe italiane dall’Iraq, vale a dire fuga ignominiosa dall’impegno assunto di soccorrere la povera gente di Nassyria, dopo decenni di sua schiavitù sotto il tallone omicida di Saddam Hussein. A seguire, proposito di togliere le tende quanto prima anche dall’Afghanistan, perché l’Italia, datasi nelle mani, feroci anche nel reclamare la pace, dei fascisti rossi non può protrarre un intervento umanitario (esso sì autenticamente conformato alla conquista della pace) a soccorso di popolazioni angariate e massacrate dal fondamentalismo islamico.

Nei riguardi dell’atroce conflitto perenne tra israeliani e palestinesi, ovviamente immediata sterzata della rotta, rispetto alla equilibrata posizione del governo Berlusconi, per solidarizzare in esclusiva con la gente che nella recente votazione ha portato con massiccia maggioranza al governo Hamas, organizzazione terroristica che tante stragi abominevoli ha compiuto in Israele, del quale si prefigge l’estinzione. In coerenza a ciò, profferte d’amicizia e di simpatia nei riguardi degli altri nemici maomettani di Israele, in primis i terroristi Hezbollah che opprimono il Libano, oltre a macchiarsi di ogni delitto pur di sopprimere “l’entità sionista”. Con il bandito che li capeggia il ministro degli esteri italiano ha affettuosamente passeggiato tenendolo sottobraccio a Beirut e un tal Diliberto, capomanipolo di primo rango dei fascisti rossi, da sempre impudicamente amoreggia.

Per quale motivo un corpo di spedizione italiano è stato insensatamente inviato in Libano, con la benedizione e anzi la sollecitazione delle fazioni integraliste rosse, ostilissime a qualsiasi altro coinvolgimento delle truppe nostrane? Per ostacolare gli israeliani nella difesa del loro insidiato territorio e per favorire Hezbollah nel suo riarmo antiebraico, dopo i colpi inferti ai terroristi che costituiscono detto movimento dall’armata di Israele, in occasione della sua più recente azione difensiva.

Infine, a ulteriore testimonianza del frastornamento del delirante esecutivo italiano anche nel campo della politica estera, del viscerale antiamericanismo che sostanzia i fanatici farneticanti alla sua ala sinistra – i quali come in altri ambiti operativi hanno contagiato in maniera esiziale l’intera coalizione – menziono la vicenda che ora incombe dell’ampliamento della base militare statunitense a Vicenza, già convenuto dal precedente governo nel contesto di specifici accordi internazionali.

Accortisi della questione – in sé di entità veramente minimale – i fascisti rossi hanno cominciato a sbraitare che la cosa non si doveva assolutamente fare, promettendo sfracelli tramite manifestazioni e cortei, ai quali avrebbero partecipato anche ministri, secondo l’abietta tattica per cui si può essere contemporaneamente “di governo e di lotta”.

Allorché, con rarissimo soprassalto di dignità, il Prodi ha bofonchiato che la decisione spettava a lui e che, quindi, l’ampliamento della base non era in discussione, è successo che un ordine del giorno a sostegno del ministro della difesa intenzionato a dar corso a quanto stabilito è stato votato al Senato dall’opposizione con alcuni apporti della sé dicente maggioranza, così che il governo è stato sostenuto dall’opposizione e osteggiato dagli accoliti che virtualmente l’appoggiano.

Un pasticcio grottesco questo, un comportamento demenziale che ha reso il nostro squinternato Paese ulteriormente ridicolo e inaffidabile agli occhi del mondo.

Sono proprio curioso di constatare come l’inverosimile faccenda evolverà.

Ma il campo operativo in cui la masnada parlamentare e governativa (che si è pro tempore sobbarcata l’onere di guidare la disgraziata Italia verso più alti e luminosi destini) sta attualmente profondendo il suo più corrosivo e letale furore distruttivo è quello dei valori etici e civici peculiari della nazione italiana, i pochi convincimenti basilari che conferiscono almeno una parvenza di coesione a un coacervo di individui ringhiosi, attaccati al particulare, inetti a sentirsi autenticamente “popolo”, in quanto tale animato da comuni ideali e sentimenti.

Una sorta di cupiditas dissolvendi sembra essersi impadronita di tutte le fazioni incollate con lo sputo entro la cosiddetta Unione, una voglia matta di distruggere i fondamentali etici solo collante di questa nostra precaria società, una smania di autocastrazione la quale induce (forse su tutto prevalendo l’odio folle avverso il nemico dell’umanità Berlusconi, da esso movendo ogni voluttà di buttare all’aria quanto dallo stesso e dai suoi affermato e sostenuto) sé dicenti cattolici a farsi beffe degli ammonimenti della Chiesa e del Papa, conclamati laicisti e senzadio a criticare ad ogni piè sospinto qualsivoglia presa di posizione dei medesimi Chiesa e Papa, pervenendo gli stessi con empio cinismo ad additare sfrontatamente come i suddetti dovrebbero comportarsi per esercitare rettamente il loro ministero.

Una spiegazione razionale non riesco davvero a scovarla per dar ragione di posizioni e atti tanto sconciamente dissennati: paradossalmente allora dico a me stesso (scherzando, ma non tanto poi) che con tutta evidenza il maligno – così rendendo più totalizzante e vistoso l’indubbio trionfo che sta quasi dappertutto in questo sciagurato orbe terracqueo conseguendo – sì è radicato nelle anime anche di individui che per tutta la vita si sono dichiarati fedeli e anzi fanatici d’Iddio onnipotente, tramite tale falsa professione di sudditanza traendo vantaggi politici e porzioni di gustoso potere.

Per cui i medesimi, intruppati entro la mala bestia che ha forse per un soffio prevalso nella più recente consultazione elettorale, pur di rimanere in sella, di sentirsi vincitori di colui che a loro avviso incarna il male (Berlusconi è ovvio) si piegano ossequienti ad ogni ricatto dei fascisti rossi e dei loro compari nella corsa verso tutte le abiezioni, ritengono più gratificante il loro procedere al momento sulla groppa del cavallo governativo rispetto alla concreta eventualità di “dannarsi l’anima”, tra l’altro spernacchiando gli insegnamenti e le esortazioni del Pontefice e della Chiesa.

Ribadisco la mia consapevolezza di esprimermi qui in modi intenzionalmente paradossali e apocalittici: ma come inquadrare altrimenti con l’intelletto la sfilza di mostruosità che mi accingo ad elencare, forzandomi a omettere quasi ogni commento oltre l’enunciazione?

La sudditanza compiacente all’Islam aggressivo, prepotente e terroristico, determinato a soggiogare l’imbelle Europa approfittando della recisione, dalla stessa per ignavia attuata, dei propri fondamenti ontologici: per cui, ad esempio, in luogo di ringraziare i servitori dello Stato che con la collaborazione di colleghi statunitensi hanno sbattuto fuori dall’Italia, mettendolo nella condizione di non nuocere più, un delinquente maomettano come il profeta suo ispiratore seminatore di scandali e scismi, questo orripilante Paese li osteggia, li mette sotto processo, è intenzionato a comminare loro condanne per avere bene servito l’inqualificabile Paese medesimo.

La coltivazione voluttuosa del pacifismo, in quanto tale sempre a senso unico, ovvero sia in funzione antioccidentale, quindi espressione assolutamente sconcertante di una libidine di autoflagellazione inspiegabile se non in prospettiva escatologica, di sentimento della fine, di voglia d’accelerare l’agognata apocalisse (detta coltivazione coinvolge una quota non infima della banda prodiana). Tra l’altro, la proclamazione del pacifismo viene esercitata dalle punte di diamante dello stesso con ricorso sistematico alla violenza: scontri con le forze dell’ordine, abbruciamenti di bandiere israeliane e statunitensi, esaltazione dei resistenti palestinesi, iracheni e dei talebani afgani, empio dileggio dei militari italiani caduti in quelle micidiali contrade in difesa della autentica pace.

L’incoraggiamento dell’immigrazione clandestina, vera e propria piaga biblica di questa violentata Italia, da parte degli attuali caporioni governativi ulteriormente incentivata con la promessa di una facile e veloce cittadinanza italiana a tutti i migranti dell’orbe terracqueo. Non solo non si ha il coraggio di affermare con chiara e ferma pronuncia ma addirittura mellifluamente si nega che l’immigrazione clandestina è un atto di invasione del suolo patrio paragonabile alle calate barbariche e straniere reiterate nella penisola italica per secoli, contro il quale uno Stato degno di questo nome dovrebbe opporsi con la massima e più rigida determinazione. Addirittura si arriva a sostenere che gli immigrati, anche clandestini, sono una risorsa per l’Italia, quando invece solo politici obnubilati dalla più totale cecità possono non accorgersi del fatto che i problemi di ogni tipologia provocati dalla presenza qui degli immigrati sopravanzano senza possibilità di comparazione quelli con il loro concorso risolti.

L’approvazione in fretta e furia dell’indulto: per grave responsabilità del quale decine di migliaia di delinquenti (gran parte dei quali stranieri clandestini) sono stati graziosamente estromessi dalle carceri, senza aver scontato la pena irrogata per i loro misfatti, così incentivando la cultura e la pratica dell’illegalità già pericolosamente (per la sopravvivenza stessa della compagine sociale e civile) pervenuta al diapason. Quanto il provvedimento sia stato assurdo e improvvido lo dimostra clamorosamente la circostanza che una rilevante percentuale dei criminali liberati, appena rimessa nella condizione di nuocere, ne ha approfittato, commettendo altri reati, vessando i cittadini fatti oggetti delle loro attenzioni anche con l’omicidio, finendo la loro provvisoria miserabile avventura – almeno quelli di nuovo accalappiati – con il ritorno dietro le sbarre, più neri, esecrabili e irredimibili di prima.

L’animosità e l’ostilità (di stampo tardo ottocentesco) nei riguardi della Chiesa Cattolica, di cui ho già dianzi dato menzione: per impulso irresistibile delle quali i sé dicenti cattolici della coalizione governativa disattendono le indicazioni e i consigli della Chiesa (proclamandosi – come fa con arroganza e protervia il capo squadra di Scandiano –  “cattolici adulti”, ovvero sia disponibili e determinati a irridere le esortazioni e il magistero ecclesiastici col loro acritico sostegno a qualsivoglia abiezione pretesa dall’ala sinistra ove allignano fascisti rossi e sodali) e laicisti ed atei della brutta compagnia, autodesignatisi maestri di sacra teologia, dotati quindi di pertinente sapientia cordis et mentis, con parola ispirata e profetica additano alla Chiesa che cosa fare per essere autenticamente tale e al Romano Pontefice come adempiere santamente la sua missione.

Potrei seguitare a snodare l’elenco a dismisura: ma vi pongo termine dicendo qualcosa della massima aberrazione finora messa in cantiere dall’inverecondo consesso governativo che a comun danno impera, i famigerati PACS.

Sono sempre più numerosi gli individui che decidono di convivere ignorando le regole religiose e civili in argomento stabilite, le quali sanciscono doveri e diritti. Tale scelta va ovviamente del tutto rispettata. Invece no, la ciurma governativa ritiene suo obbligo intervenire in argomento con il massimo clamore, ingabbiando anche dette opzioni “eversive” in una miserabile rete di norme, dando così corso a una caricatura di matrimonio. La mira dissacratrice di più o meno lungo periodo dei sostenitori della menzionata nefandezza è l’abiezione assoluta del cosiddetto matrimonio tra omosessuali che, prima o poi, se gli attuali distruttori della convivenza civile in Italia seguiteranno ad occupare il potere, verrà legittimato con apposita empia norma, negatrice delle leggi di Dio, della natura e dell’umanità che per millenni siffatta soluzione ha aborrito.

Come affermato e ripetuto dai pochi savi che ancora agiscono nell’arena politica (nessuno, purtroppo, nella compagine che si ritiene legittimata a governare), l’esclusione perentoria della violazione del diritto naturale con disposizioni attestatrici della smania degli uomini di arrogarsi facoltà e poteri peculiari dell’Essere che ci trascende, non significa negazione dei diritti propri delle singole persone umane: anzi, saggio sarebbe stato intervenire in proposito con potenziate guarentigie, magari a corollario di salde norme di tutela dell’istituzione familiare, che invece scandalosamente sono carenti. Ma di tutto ciò niente, solo chiasso e grancassa battuta a tutto spiano, entro una sorta, tra l’altro, di santificazione dei culattoni che, dopo millenni di reificazione e persecuzione, vengono issati al rango di esseri privilegiati, da venerare, invidiare, additare ad esempio.

Gli obnubilati orbi, che asseriscono essere le norme in questione addirittura un “grande atto di giustizia e civiltà”, adducono a riprova della bontà di quanto si vuole introdurre anche in Italia il fatto che disposizioni legislative ben più eversive in merito sono già state varate in altri paesi europei. E allora? Perché necessariamente l’Italia deve rincorrere lungo la strada del re-imbarbarimento stati che, buttata alle ortiche ogni remora etica, stanno con accelerazione progressiva rinculando verso la condizione selvaggia, animistica e politeistica dalla quale furono tratti grazie al contatto con le civilizzazioni greca, romana e cristiana?

Il connotato più evidente del governo prodiano, il quale dà ragione delle sue scelte e propensioni (alcune delle quali qui sopra da me acerbamente rampognate) è la sua inveterata vocazione a uno statalismo assatanato, definibile anche di stampo staliniano (tenuto conto delle fazioni pervase di estremismo rosso incluse nella combriccola), vera e propria evoluzione/degenerazione della concezione hegeliana dello stato etico.

L’asserito statalismo è manifestato dai modi operativi di un governo che sospettoso sorveglia (incline a ritenere che i cittadini/sudditi siano costituzionalmente proclivi a cadere in nequizie ai danni dello Stato e non solo) e punisce, in maniera indiscriminata e capricciosa (taxisti, barbieri, giornalai, benzinai, .....). Il medesimo governo pretende di interpretare la volontà popolare, anche quando con tutta evidenza la caduta a picco del consenso nei suoi riguardi dimostra il contrario. Esso è intriso da una vera e propria voluttà pedagogica: il popolo è sempre infante nelle sue cogitazioni e propensioni; quindi va diuturnamente educato e guidato. Lo Stato, ancora, provvede con somma sollecitudine ai bisogni del popolo che, essendo fanciullo, non riesce a discriminare quale sia il suo autentico bene: quindi lo tassa in maniera esosa, chiedendo allo stesso “modesti” sacrifici in cambio dell’avvento (domani e, divenuto il domani presente, dopodomani) della favolosa età dell’oro per tutti. Nulla importa se poi lo Stato sciala dissennatamente le risorse estorte alla gente e gli esiti dei suoi interventi sono disastrosi (nei settori dell’ordine pubblico, dell’opposizione all’invasione dei clandestini, nell’istruzione, nella gestione della salute, nei trasporti, tanto per citare a mo’ d’esempio).

E dunque, in spregio ai convincimenti più qualificati della dottrina politica, lo Stato, vagheggiato e attuato dallo schieramento che nella presente disgraziata contingenza comanda, in luogo di attenuare la sua incombenza e rendersi meno ingombrante e fastidioso fa esattamente l’opposto: ostenta ossessivamente la sua figura di moloch sempre più immanente e minaccioso, cupido di gravare man mano di più sulle cervici della gente. Drammatizzo, con tutta probabilità, ma in fondo alla china attuale risiede la regressione dei cittadini a sudditi.

Un’unica via di scampo traluce, nel quadro a tinte fosche qui sopra sciorinato: la circostanza che la litigiosità endemica della torma governativa, la reciproca diffidenza e ostilità tra i capibastone dell’accozzaglia impediscono, fortunatamente almeno per ora, allo sciagurato ordigno di coagire assiduamente nel progetto demolitorio.

Dico ora di un paradosso tutto e solo italiano, che costringe questo inverosimile Paese ad oscillare fra tragedia e farsa. Dopo oltre cinquant’anni di lotta in qualche occasione asperrima contro il comunismo, per impedire che i manipolatori e i succubi di siffatta aberrante ideologia e criminale pratica politica si installassero al potere a integrale rovina di tutti, dopo che il mai abbastanza esecrato comunismo ha per buona sorte tirato le cuoia in quasi tutto il mondo, nettando in particolare l’Europa di sé, in quanto pestilenziale e necrotica infezione, che cosa combina l’ineffabile e stupefacente Italia? Accetta passivamente (anzi, metà degli elettori ciò favorisce gioendone per odio avverso Berlusconi) d’essere governata da una ghenga di fazioni due delle quali si richiamano orgogliosamente e spudoratamente al comunismo, una terza, che tale virus Ebola ha inestirpabilmente annidato nel suo DNA, alberga nel proprio ventre un correntone ancora e sempre comunista, come ai bei tempi del fondamentalismo e dell’odio marxista riversato a fiumi sull’aborrita borghesia, una quarta (i sé dicenti “Verdi”) strizza l’occhio a tutti gli estremismi, nemica dell’universo mondo (occidentale) e in ultima istanza anche di se stessa.

Una situazione di tal fatta potrebbe parere pura e improbabile fantascienza: invece costoro, abbarbicati ad arcaiche visioni ideologiche ottocentesche, fidenti nel più vieto e cieco conservatorismo, incredibile ma vero, sgovernano l’Italia nel 2007! A questo punto mi corre l’obbligo morale di fare ammenda delle critiche errate rivolte a Silvio Berlusconi e di rendere omaggio alla sua lungimiranza: per tutte le circostanze in cui, implacabile e ostinato, da tutti deriso e pure da me reputato esagerato e catastrofista, evocava il pericolo comunista incombente sull’Italia e richiamava all’urgenza di farvi lucidamente fronte.

Nel corrente scritto ho adoperato con quasi ossessiva frequenza, per designare i partiti comunisti o postcomunisti intruppati nella compagine governativa, la locuzione “fascisti rossi”. Essa viene da me assunta e reiterata solo per voluttà di dileggio e scherno beffardo nei confronti di gruppi e individui che da sempre si proclamano connotati dalla bandiera del più irriducibile antifascismo?

Non nego l’intento denigratorio, coerente del resto con l’impostazione testuale di questa argomentazione che esplicitamente intende configurarsi quale pamphlet violento. Ma non solo di ciò si tratta, tutto a ben considerare. Comunismo e fascismo, infatti, sono fratelli gemelli, figli degeneri e degenerati entrambi del socialismo, magnifica utopia di redenzione e riscatto degli oppressi dalla loro minorità (tragico davvero il destino del socialismo che non ha partorito, come molti si ostinano ancora a sostenere, Abele e Caino ma, giustappunto, Caino e Caino). Lungo l’intero tragitto del Novecento (dalla loro belluinità reso il più tragico, forse, della storia umana) i due sciagurati consanguinei hanno ferocemente duellato, per conquistare la palma di più micidiale e criminale facitore di orrori della storia. L’attribuzione all’uno o all’altro della coppa più ricolma di sangue è tuttora dilemma di arduo scioglimento.

 La contesa tra comunismo e fascismo non ha imperversato soltanto a livello “macro”, di stati, eserciti e gruppi: anche i singoli individui, fagocitati dalle maligne attrattive dell’una o dell’altra aberrazione, si sono spesi allo spasimo, per prevalere nel campionato del terrore omicida. Valga a mo’ d’esempio la catena inenarrabile di infamie perpetrate in Italia durante la guerra civile (la cosiddetta Resistenza sulla quale nulla si può sostenere se non laudatorio secondo il diktat della sé dicente sinistra) e soprattutto dopo il 25 aprile 1945. Cito in proposito dal volume Il sangue dei vinti di Giampaolo Pansa (che per avere osato l’esercizio della critica razionale e non pre-giudicata nei riguardi dei falsi miti imposti dal culturame sinistrorso circa la guerra civile sta passando i guai suoi) una esemplare constatazione, contenuta in un rapporto su eccidi compiuti in Veneto da partigiani comunisti, avallata dal CNL del Veneto, constatazione che testimonia la totale pertinenza semantica della locuzione “fascisti rossi”: “Quel che più impressiona questa pacifica popolazione è il comportamento dei comunisti, i quali dichiarano di essere nemici degli Alleati, dei ricchi, dei contadini, dei preti e così via, e pretendono di comandare dappertutto, usando violenza e prepotenza. Intanto danno ogni giorno prova di egoismo, di vizio, per cui fanno ricordare molto il defunto squadrismo fascista. E la popolazione dice che, a sostituire le bande nere, sono venute le bande rosse”.

Nel dialogo Gorgia, ove è discussa con critica micidiale la retorica, Platone, dicendo dell’uomo come sinolo di anima e corpo, sostiene che la politica è l’arte che riguarda l’anima, articolata in due espressioni, arte della legislazione (che con le leggi conserva la salute dell’anima) e arte dell’amministrare la giustizia (che ridona con la pena la salute all’anima che ha commesso colpa). A corruzione di detta arte opera una lusinga dell’anima, pseudo-arte in forma di contraffazione della politica, a sua volta scandita in sofistica (contraffazione della legislazione) e retorica (contraffazione della giustizia). Lo schema platonico è più esteso, trattando anche dell’arte e della pseudo-arte del corpo: ma tale estensione io qui tralascio, in quanto non funzionale al focus del mio ragionamento.

Ecco, l’analisi di Platone funziona egregiamente a rappresentare la strategia operativa della accozzaglia governativa prodiana: essa ha reificato l’arte della legislazione a sofistica, luogo e strumento di soddisfazione delle pulsioni più estremistiche, scervellate e a-razionali e l’arte della giustizia a retorica (per cui non si esige rispetto delle regole stabilite a garanzia della umana convivenza e non si pratica la tolleranza zero nei riguardi di chi sgarra, ma si sancisce l’impunità dei reprobi – indulto –, si comminano punizioni a casaccio, si censurano gli eventuali eccessi delle forze dell’ordine e ci si pone con benevola comprensione nei riguardi degli eversori, che le medesime e soprattutto i buoni cittadini minacciano, aggrediscono, arrivano a uccidere).