11031977 Guerriglia urbana a Bologna. Dopo che in mattinata uno studente universitario estremista, Francesco Lo Russo, mentre intruppato in una masnada di facinorosi tentava di ímpedire un convegno di altri studenti appartenenti a "Comunione e Liberazione", ancora non si sa se a freddo o in seguito a sua provocazione, e' stato falciato e massacrato da una raffica di mitra alla schiena, fuggiva il povero sciagurato, lasciata partire (mi sono giunte all'orecchio due versioni) o da un tenente dei carabinieri che ha perso la testa o da un milite che, colpito mentre si trovava alla guida d'un camion da una bomba molotov, e' sceso a terra e ha freddato l'aggressore.
Dopo aver girato per ore nella citta' in balia della furia distruttiva dei cosiddetti autonomi, mi sono imbattuto per caso nel luogo dell'eccidio, a due passi da casa mia, in via Mascarella di fronte alla chiesa, davanti a un negozio di tappezziere. Macchie di sangue sotto il portico, osceni drappi rossi ed alcuni mazzi dì garofani rossi: in mezzo due sampietrini, le armi usuali della nuova violenza pseudorivoluzionaria. Nessuna parola di commiserazione, rimpianto o pieta' tracciata in quel tragico luogo: altrove invece scritte feroci di guerra sui muri e dalle bocche minacce urlate di sinistra e atroce vendetta.
Doveva accadere prima o poi, fatalmente dopo i tanti segni recenti della tensione e dell'odio montanti: ispirandomi ad episodi di devastazione verificatisi a Bologna l'antivigilia di Natale, ho scritto settimane fa un racconto, "L'ira della citta"', che mi pare assai bene rappresenti l'atmosfera angosciosa di questi tempi ed anche contenga allusioni e foschi presagi gia' oggi in parte drammaticamente attuatisi. Ed altri, piu' tenebrosi giorni premono alle porte, di sangue, morte, dolore e distruzione, perche' ormai gli individui che la dabbenaggine di tutti ha designato a difesa della civile convivenza e del bene comune, altro non sanno fare che deplorare le violenze, i vandalismi e gli sprezzanti ostracismi antidemocratici dei manigoldi con generici e grotteschi comunicati di vuote, afone parole, mai avendo operato fino a ieri per offrire ai giovani condizioni di studio e prospettive di lavoro dignitose, tali da non spingerli oggi, per la disperazione, il buio della vita, al gusto dell'odio indiscriminato contro tutto e contro tutti, della violenza eversiva, della bestiale irrazionalita', nessun responsabile, esemplarmente e legalmente duro provvedimento sapendo adesso adottare, senza pusillanimita', mistificazioni, reticenze, a difesa degli inermi cìttadini che vorrebbero trascorrere i gia' amari giorni di lor vita, in un ambiente sociale sopportabile, non dilaniato dalla violenza, contro dunque gli autentici, feroci criminali pseudopolitici che, sfruttando cinicamente per l'esaltazione della loro libido dominandi il sacrosanto risentimento dei giovani, impuniti spadroneggiano oggi nelle citta', e proprio con l'indubitabile apparenza d'invulnerabilita' attraggono nella loro orbita sciami di gregari o di imitatori.
Con la superficiale sicumera oggi da tanti adottata, questo mio si puo' di certo qualificare come un discorso fascista: ma occorre comunque, contro coloro ormai drogati dal sapore luciferino della distruzione indiscriminata, la scelta di una inflessibile, serena durezza; falliti, come purtroppo han fatto fiasco per l'egoismo, l'insipienza e l'arroganza di tanti, gli strumenti umani del dialogo, della comprensione, del dialettico confronto: altra via non intravvedo per uscire dal pauroso tunnel con delittuosa avventatezza tempo fa, e con indifferenza, imboccato.
Nel tardo pomeriggio di oggi, ricevute vaghe informazioni sui disordini avvenuti e in corso, mi sono affrettato verso Piazza Maggiore, consueto epicentro cittadino di tutte le manifestazioni: ed ho forse goduto il non invìdiabile previlegio di assistere, vivendolo, a un momento importante dell'agonia di una democrazia.
Sbuco in via Rizzoli, animata da gente che percepisco ansiosa, in tensione; e subito aspiro l'odore acre di qualcosa che irrita gli occhi: gas lacrimogeno irrorato poco prima. Sosto davanti alle vetrine infrante di un salone, al centro del quale troneggia una FIAT Campagnola da rally: e' stata attaccata, incendiata e semidistrutta da una bomba molotov. Son li' che contemplo lo scempio quando si levano alte grida e dalla parte di Piazza Maggiore vedo arrivare di corsa una mandria di gente atterrita: la precedono giovani, dietro trottano persone anziane, donne, bambini; di botto il cuore mi sobbalza in petto per la paura, mi sorprendo in fuga precipitosa entro quel bailamme. Ma recupero quasi subito l'autodominio, m'impongo di fermarmi, trovo riparo dietro una possente colonna del portico. Transita tutto il gregge imbizzarrito e dietro non c'e' nulla; intendo subito la struttura di quella manovra: giovinastri cinici e pazzoidi per seminare il panico all'improvviso scappano; gli astanti, compressi come molle, paventando inauditi pericoli irrazionalmente s'accodano a gambe levate.
Piazza Nettuno e' presidiata, per una vigilanza democratica al sacrario dei caduti e a difesa del palazzo comunale, dagli iscritti al partito comunista chiamati a raccolta; mi spingo in quei paraggi, m'immergo nella ressa; c'e' una confusione indescrivibile, un grappolone di giovani arroccato attorno alla Fontana del Gigante, arrampicato sulla statua, inveisce a squarciagola, scandisce slogans indistinguibili: non si capisce con chi ce l'abbiano, appaiono ad ogni modo visceralmente incazzati.
M'imbatto in Franco Capelli, un collega professore dei tempi di Porretta, allora simpatizzante degli extraparlamentari di sinistra: si dimostra sconcertato, impressionato; discorriamo eccitati, volano fino a noi notizie di vandalismi, saccheggi, aggressioni; constatiamo e stigmatizziamo l'assoluta latitanza del potere politico locale, dei sindacati confederali, dei capi democratici insomma che dovrebbero essere qui, tra il popolo, ad animarlo e guidarlo, e invece tace la loro voce, mentre la citta' e' in balia di una masnada di pazzi irresponsabili che la stanno mettendo a ferro e a fuoco. [Scrivo questa cronaca la notte di domenica 13 marzo, attorno alle 11; sono teso e con l'orecchio spasmodicamente intento: il silenzio di tanto in tanto e' rotto da gragnuole di scoppi e ululati di sirene; c'e' battaglia in centro, attorno alla cittadella universitaria conquistata ieri sera da polizia e carabinieri, in questo momento forse attaccati dai guerriglieri: forse crepitano le armi da fuoco, di certo piovono bombe lacrimogene; sono combattuto tra l'urgenza quasi fisiologica di uscire fuori a rendermi conto di persona, in barba ai rischi, come sto facendo ormai da tre giorni, e la preoccupazione di non lasciar soli in casa la moglie e il figlio coricati, inquieti e insonni; m’occupa la mente inoltre il pensiero della mia automobile, parcheggiata giù in strada: come è già successo la scorsa notte, squadracce di "desperados" frustrati per la sconfitta subita potrebbero ancora dar corpo alla rabbia che li dilania incendiando a casaccio vetture con le bottiglie molotov; meglio sarebbe stato indubbiamente se avessi provveduto durante il giorno a sistemarla fuori tiro dei malintenzionati. È grottesco ma in fondo naturale che, mentre una nobile città e la pacifica convivenza vengono così crudelmente vulnerate, io sia tutto agitato per la mia automobile: ma da che mondo è mondo, quando la paura e l’incertezza si diffondono, l’individuo, a garanzia della sopravvivenza, s’aggrappa alle sue piccole cose].
Prendo commiato da Capelli, con l’intenzione di fare un salto al CIDI, a discorrere dei drammatici eventi in corso con Guidicini, Cheli e le ragazze della scuola: mi gela sul piede di partenza l’improvviso confluire in Piazza Maggiore di un lungo, biscioso corteo sbucato da Piazza Re Enzo; sono gli autonomi, centinaia e centinaia, dapprima silenziosi, con torve facce semicelate da passamontagna, fazzoletti rossi e d’altri innumerevoli colori; esplodono all’unisono in un urlo scandito, reiterato: "Per Francesco Lo Russo non prenderemo il lutto; pagherete, pagherete tutto!".
M’avvicino incuriosito: sono in gran parte giovanissimi, tra loro anche tappetti e fanciulline di tredici, quattordici anni; brandiscono, nessuno escluso, in una mano gambe di tavoli e di sedie (asportate dalle suppellettili fracassate dell’università), sbarre metalliche, randelli, nell’altra ognuno tiene una sportina di plastica pesante e rigonfia di sampietrini: gli astanti impietriscono all’agghiacciante spettacolo; non perché quella marea berciante slogans di giovanissimi ultras così come s’ostenta incuta particolari timori: ma sono più di trent’anni che le armi, proprie ed improprie, stanno fuori, alla larga dal tempio di Piazza Maggiore, luogo quasi sacro dedicato al culto degli immani conversari, diurni e notturni, dei petroniani; questa profanazione da sola testimonia la protervia delle ore che stanno cadendo addosso alla città.
Disgustato me ne vado da Guidicini, a parlare degli eventi in atto con le ragazze. Ispeziono più tardi gli sfracelli provocati dalla canea dei nuovi barbari ai negozi nei dintorni di Piazza Maggiore: dalle vetrine mandate in mille frantumi di Schiavio sono spariti tutti gli articoli sportivi già esposti in mostra; abbinando il distruttivo all’utile gli eversori hanno reputato non discaro lo sgraffignarli. Soltanto la vetrata del Monte dei Paschi di Siena s’è fieramente opposta alla furia dei percussori: costellata di bozzi biancastri da cima a fondo, incrinata, incisa da raggere di fratture, non s’è tuttavia lasciata penetrare. Lungo tutta la via Irnerio carcasse incenerite di bidoni della spazzatura, ancora fumanti, incendiati con le bottiglie molotov: altri bidoni rovesciati a terra, il rusco cosparso nel mezzo della strada; ironizzo con due passanti sul significato rivoluzionario di quell’accanimento contro la spazzatura.
E m’immergo infine, congratulandomi con me stesso per l’audacia che esprimo, nel sancta sanctorum della rivolta, il quartier generale, la cittadella universitaria, da dove oggi sono partiti i raids squadristici; nessuna difficoltà per entrarvi, transito qua e là completamente inosservato. Quattro barricate in via Zamboni, attorno a Piazza Verdi, cuore della lotta; erette con mobilio vario scaraventato in strada dalle finestre della Facoltà di Lettere e Filosofia, lunghe tavole bianche divelte dalla mensa universitaria, vasi infranti, cartelloni pubblicitari, contenitori dell’immondizia. In Piazza Verdi, malgrado circolino sprezzanti, con in mano spranghe di ferro e catene, ceffi impressionanti che chiaramente ancora non hanno attinto il livello bio-psichico degli homines sapientes, si respira un’aria quasi da sagra paesana o fors’anche da manicomio nel quale i folli si sono liberati dalla tirrannia dei terapeuti: guerriglieri deambulano lemmi lemmi, oziosamente, abbracciati a lor femmine; ma i più s’abbuffano, sparsi a terra qua e là e l’odore più diffuso è di vino versato nelle gole, sui vestiti e sul selciato.
Getto un’occhiata dentro al salone illuminato a giorno della mensa universitaria, sgombro in primo piano di suppellettili, cosparso di cartacce, piatti rotti, bottigliette vuote ed avanzi di cibo: nella condizione di una bottega di terraglie nella quale si sia svolto un rodeo.
Un viavai ininterrotto di individui m’attira all’altro capo della piazza: ahi, ahi, si sta mettendo male assai, dei manigoldi attentano coram populo alla proprietà privata e questo attirerà prima o poi fulmini polizieschi; con la classica tecnica ladresca del piede di porco hanno scassato e divelto la saracinesca del ristorante "El Cantunzein" e ora ferve la razzia: giovinastri ed arraffanti fanciulle traggono fuori da lì dentro il ben di dio: prosciutti, formaggi, matasse di salsiccia, bottiglie e bottiglioni di vini pregiati, di liquori, cestelli di tortellini, salami, dolci e creme, mazzi di posate d’argento, candide tovaglie, mortadelle, pezzi cotti di carne; poiché mi sono troppo avvicinato alla soglia violata e intralcio il flusso e il riflusso dei saccheggiatori, una ragazzona con le braccia gravate da una gran cassetta zeppa di roba m’impone imperiosamente di scansarmi.
La letteratura m’intride fino ai capelli: quale ricordanza mi suscita infatti tutta questa gran ruberia? La scena manzoniana del "forno delle grucce".
Basta, ho visto anche troppo, me ne vado: con la convinzione che giorni duri, di fuoco, furore e terrore, il destino sta approntando per la città.