Caos

 

Rane petulanti gracidano sotto il cielo

avaro di stelle, innominate dallo strido.

Disperate sulle pietre senza luce

le dita arronciglianti che sopraffatte

mollano la presa schizzano liquami vischiosi

a vanificare la cattura delle mani forestiere.

 

Felicità è la fuga dal presente

la muta compatta che irrompe

sulle piste di una sirena elusiva.

Nei meandri del cervello all’acme della festa

strepitosa odiamo i corpi che ci pressano

perché all’improvviso c’illumina l’evidenza

il figlio pronuncia parole straniere

lo sguardo della donna simula

la passione del dono e atrocemente

il rovello che dilania la carne

isola uno scheletro che non ci appartiene.

 

Aride dita di alberi scortecciati

macigni sulla sabbia in disordine screpolati

vagolano iene dagli occhi impazziti

gli scorpioni nidificano nelle occhiaie dei teschi.

E l’aroma della benzina bruciata

il tarlo nel cervello

gli strepiti della corsa velenosa:

rabbrividiamo così, lacerati

dal fantasma di mai dissolti terrori.

 

L’ultimo moto della ruota muore

sopra la scultura di lamiere che il sangue

impreziosisce fuori dai corpi urlanti

nella prigione mattatoio

la gente commenta distaccata l’accaduto

sigla la morte in cronaca

un inchiostro provvisorio.

 

Tu che predichi non sai

la parola afona di dio

occhieggia forse nei colori

dentro la sporcizia di uomini

dagli sguardi miti e stralunati

a irridere lo spreco della civiltà.

La poesia, privilegio degli occhi che sanno

il codice sonoro del buio.