Irrealtà della predicazione

 

Furioso contro il mio corpo per la mortale stanchezza

curvo nel gelo lungo strade notturne imprecando

al cospetto della città portavo sulle spalle il fardello

questo mio deserto che dilata i confini della sua ombra.

Proteo l’ubriaco mi apostrofò dalla soglia della taverna:

“Ehi, testimone dell’inconsistenza, perché continui

a coltivare velleità, nella serra asfittica della tua immaginazione?

Ammira la gente che ride proterva nella luce:

non c’è posto, davvero, nel concerto delle parole per il tuo silenzio”.

 

Persi l’illusione d’una meta per il mio vagabondare

nei quadrivi del caso agli uomini abbordati

mostravo un’immagine sfocata di sofista nostalgico di rigore

nell’assenza di palpiti coricavo un’insonnia inaridita.

 

Il giudice che non assolve m’arrivò addosso all’improvviso:

ma non poco dovette inveire contro la corte sbraitante

prima che la paura azzerasse la lingua dei miei spettri

ostinati a confondere in fetore quei carismi di profezia.

 

“Dalla notte della tua alba la condanna è incisa su foglie d’indifferenza

non godrai il conforto d’una esecuzione tra gli applausi del popolo:

vivi assaporando tra i denti il peso della polvere

imperturbata assorbirà domani l’acqua la tua parvenza.

 

Perché senza mola non scintilla la lama del coltello,

sempre più astuto il topo gozzoviglia nel granaio della tribù

tra un anno camminerai sentieri avvizziti dove il verde colora la morte,

non predicare, lieve il fardello se prediligi l’inerzia”.