Lamentazione e proteste per l’apparenza nullificata della vita

Ragno privato dell’abilità
di tessitore m’arrampico ostinato

lungo sentieri ammutiti

dalla sterilità, verso la speranza

d’oasi dove ancora fermenta

forse il rigoglio della vita.

 

Piagato senza scampo dalla condanna

all’inconcludenza, mordo la mia parvenza

ingorgato di furore mentre dilegua

beffardo il miraggio d’afferrare

il bandolo dell’autenticità che m’intrida

lo spirito ottuso di non marcescibile soteria.

 

Azzeramento dell’essere in carcere

d’inessenza questo calpestio maniacale

nel cerchio implosivo d’una rituale

quotidianità a caccia dell’illusione

che non sia negata alla mia inconsistenza

l’opportunità d’un repentino sfolgorare

che abbagli la foce del labirinto

entro lo spazio edenico dove

il sentimento pilota i percorsi dell’esistere.

 

Ma la cecità ai colori della passione

vincola alla terra, non balugina

la grazia agli occhi smorti

dell’individuo occultato in un mantello

invernale che rotola esangue

lungo strade scavate per il passaggio

melenso degli uomini disanimati

sui quali non è impresso il privilegio

della follia, l’evasione falotica

dalla trincea per assaggio d’avventura

fuori trama in una vampa generata d’amore.

 

Nostalgia per l’afrore di muliebri

corpi denudati, una breccia di voluttà

nella riluttanza all’abbandono

la fede di catturare brandelli di solare

evidenza indiato nel piacere

che secerne la frenesia di compenetrazione,

il dono d’estasi nella carne

umano suggello

al vuoto struggente d’empatia.

 

Infranta la trama delle narcotiche

convivenze la favola nella notte

di città incantate avvinto

alla malia terrestre d’una deessa tuttafiga

in un rapito silenzio scoprire che il cuore

del tempo si cela nel pulsare della mano

irrorata d’ebbrezza che t’avvince

mentre sulle acque lontananti oltre

la balaustra scintilla

scia di lucore da nave

evanescente con carico d’enigmi e di pallore.

 

In quest’ora di furori e carestia

s’abbarbica l’uomo alla melassa

del presente e impone ostinato la sordina

alla profezia che dal suo esilio

lo spirito di geometria squaderna sotto menti

ottuse a negare la ventura dell’apocalisse.

 

Ci arrabattiamo in un gorgo

di futilità lesti a sottrarre alle dita

torve degli antagonisti il frammento

luccicante di mondo nell’appartenenza

al quale consiste l’ipotesi corale d’avvenire.

 

Forzeremo mai la trappola che ci esclude

dai percorsi del senso

dove la parola cattura il bagliore

dell’essere e nella forma perfetta

dell’intesa folleggianti figure

danzano iridescenti

ritmi d’amore e di preghiera?

 

Venti secoli d’ecatombe agghiacciano nel boato

d’una eresia: a terra i simulacri

eretti agli idoli della disperazione

per colmare l’assenza d’empatia

dal dio sordo e muto!

Forgeremo un’avventura solare

con la rinuncia alle insidie di tutti gli dei.

 

Sopra il frastuono delle contumelie

aleggia l’irriverenza dei barbari tatuati

dagli arabeschi millenari della civiltà

transumanati dalla ripulsa alla preda

nella zuffa delle iene.

 

La testimonianza del varco eccita

Ardori d’olocausto a sutura:

sullo spartiacque il tempo

s’aggomitola intossicato di catastrofe.

 

L’ascetismo del deserto fagocita

il crogiolo isterilito dell’alchimista

assiderati nell’effimero miraggio

di una utopia quantificata i dannati

dal caso all’estremo dileggio del noumenico

sanciscono nel sabba l’ottundimento

di ogni agnizione, additano uggiolanti

le carcasse schiantate sulla pista camuffata

presbiteri d’anestesia contro

l’eco delle verghe e dei lamenti.

 

Imbesti se dal tuo percorso

escludi l’orma di dio

rinnega l’estasi del tempo

sbarrato alla teofania

l’evidenza della terra ammutita

nell’esilio del verbo:

umilia il privilegio del tuo silenzio

alla parusia della presenza ineffabile

non istoriata in altari e conversioni

intangibile dal profluvio

di preghiere e configurazioni

fiottante forse sul cieco ostinato

a investigare grovigli di tenebra.

 

5 settembre 1979