Team di docenti “paritari” e modello “stellare” nella scuola primaria:

una riflessione pedagogica

 

Luciano Lelli

 

1.        Un po’ di storia: la legge 148 del 1990 e la pluralità dei docenti

Come non è forse diffusamente noto, fu nel 1990, con la legge 148, che il Parlamento italiano, dando sanzione normativa a un intenso dibattito protrattosi per anni, stabilì che la figura dell’insegnante unico, per decenni peculiare della scuola elementare, messa per altro in discussione dalle esperienze di tempo pieno fin dall’inizio degli Anni Settanta, aveva concluso il suo ciclo storico, sostituita in ciascuna classe da un team di insegnanti.

Non erano di poco conto le motivazioni di natura pedagogica addotte in quel periodo da studiosi, esperti e docenti a giustificazione della “rivoluzionaria” innovazione: su di esse mi intratterrò. Da qualche mese – nel contesto dell’intenzione professata dal ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini di ripristinare la figura dell’insegnante unico, intenzione in fase di traduzione normativa impetuosamente avversata dall’opposizione – molti commentatori e opinion leaders (un nome per tutti: Angelo Panebianco, firma illustre di cui si può leggere, in argomento, nel Corriere della Sera del 28 settembre 2008, l’articolo “Il riformismo bocciato”) hanno dichiarato e vanno asserendo che nel 1990 l’unico motivo per il quale la tradizionale figura del “maestro unico” fu riposta in soffitta e sostituita con il team di docenti fu la determinazione dei sindacati di mantenere inalterato e anzi di aumentare il numero degli insegnanti, malgrado il decremento quantitativo degli allievi indotto dal calo demografico.

Reputo la tesi troppo perentoria ed eccessiva: non escludo ovviamente che ragioni della natura menzionata spingessero i sindacalisti; ma c’erano in quel periodo molti studiosi ed esperti (nel novero anche lo scrivente) i quali, del tutto estranei e indifferenti a quelle pulsioni di valenza meramente occupazionale, ritenevano  che una controllata pluralità di docenti in ogni classe della primaria giovasse alla qualità della scuola elementare, vale a dire migliorasse gli apprendimenti e i saperi degli alunni (non sostengo a spada tratta che non sbagliassero: ma in totale buona fede e i loro propositi nulla avevano da spartire con le trame sindacali).

E dunque, la riflessione circa l’opportunità di revisionare l’organizzazione didattica dell’elementare era attiva da alcuni lustri. Essa si fondava su una constatazione assai diffusa: gli insegnanti elementari erano forniti (lo sono tuttora, in una decorosa percentuale degli stessi) di lodevoli competenze pedagogiche e didattiche, acquisite sia tramite gli studi propedeutici all’impegno nella professione sia, soprattutto, mediante una pratica operativa per lo più non arrogante e standardizzata ma largamente incline all’ascolto e alla valorizzazione delle istanze e delle necessità degli scolari (in un tempo remoto, in certi ambienti di alto spessore valoriale, si affermava che il maestro elementare per essere autentico doveva avere in sé una specifica “vocazione” e che non pochi erano effettivamente in grado di esibire siffatto carisma).

Contestualmente all’apprezzamento appena evidenziato, si sosteneva però che i docenti di scuola primaria in linea generale non possedevano conoscenze e competenze disciplinari di buona caratura e che di sovente i loro difetti in proposito erano preoccupanti. Ciò sia per la modestia della preparazione in ingresso (l’istituto magistrale di durata solo quadriennale) sia, con rilevanza preponderante, perché, essendo divenuti in specie nel corso del secolo allora corrente i saperi via via più complessi e stratificati, era presso che impossibile che una sola persona fosse in grado di padroneggiarli tutti. In particolare in alcuni settori (per esempio nel campo dell’educazione estetica – all’immagine e musicale – e nell’attività motoria) si riconosceva senza mezzi termini che la preparazione dei maestri – eccezion fatta di sporadici casi lodevoli – era davvero deficitaria. Forse qualcuno rammenterà l’uso e l’abuso allora di prassi del termine “tuttologo”, per indicare appunto l’insegnante elementare quale portatore di conoscenze e competenze disciplinari approssimative, tipiche di colui che sa di tutto un po’, ma niente veramente  bene.

Diverso, anzi, addirittura opposto era, in quel periodo, l’apprezzamento riservato agli insegnanti di scuola secondaria: ritenuti dotati di buone conoscenze e competenze disciplinari e deficitari invece per quanto concerne le modalità concrete del fare scuola in maniera motivante e produttiva.

 

2.   Oltre l'insegnante unico: due opzioni in dibattito 

Anche prima del varo nel 1990 della legge 148, si diede corso a una disanima abbastanza approfondita sulla tipologia di attuazione della pluralità dei docenti (rispetto alla situazione attuale c’era il vantaggio di poter discutere, nelle scuole e nelle aule universitarie, con argomentazioni puramente culturali e tecniche, senza che le pregiudiziali ideologiche facessero inesorabilmente velo, come purtroppo capita da svariati anni).

Due erano le alternative in dilemma: su un versante si reputava che la soluzione migliore fosse il modello costituito da un team di tre docenti sostanzialmente paritari, nel senso di attivi nella medesima classe con un numero di ore tendenzialmente equivalenti. L’altra sponda era occupata da coloro che preferivano il cosiddetto modello stellare, caratterizzato dalla presenza in scena di un insegnante di classe prevalente per quantità di tempo investito nella medesima e, conseguentemente, per più accentuata responsabilità nella proposta/acquisizione degli apprendimenti e nella conduzione complessiva di ogni scolaresca, coadiuvato da un pool ristretto di colleghi specialisti delle “materie” tradizionalmente più neglette per mancanza generalizzata di competenze/ conoscenze nei docenti: educazione artistica, musicale e motoria, insegnamento della lingua inglese.

C’erano ovviamente ragioni di rispettabile consistenza a favore dell’una e dell’altra tesi. La parità quantitativa dei docenti – secondo i sostenitori dell’assunto – consentiva una maggiore possibilità di approfondimento delle competenze e delle conoscenze disciplinari (essendo così ridotto il novero delle materie individualmente da praticare) e, almeno in linea virtuale, essa favoriva una tipologia di insegnamento culturalmente più corroborata e opportunità di più solidi e qualificati apprendimenti. Il modello stellare traeva pregio dalla minore sua radicalità innovativa rispetto alla tradizione della scuola elementare italiana, consentiva dunque un mantenimento più immediato e meno problematico della unitarietà dell'insegnamento, sopperendo alle carenze di tipo specialistico lamentate tramite l’intervento di apposite figure adeguatamente attrezzate.

In proposito la legge 148 mantenne un atteggiamento che si potrebbe definire salomonico, senza propendere né da una parte né dall’altra: in merito l’art. 5, al comma 5, testualmente recita: “Nei primi due anni della scuola elementare, per favorire l’impostazione unitaria e pre-disciplinare dei programmi, la specifica articolazione del modulo organizzativo, di cui all’articolo 4, è di norma, tale da consentire una maggiore presenza temporale di un singolo insegnante in ognuna delle classi”. Si rileverà a seguire quali effetti perniciosi abbia indotto l’improvvida locuzione “di norma”, interpretata e assunta in termini esageratamente estensivi.

 

3.   La dicotomia tra scuole statali e scuole paritarie

Negli anni immediatamente successivi al 1990, nelle scuole statali, si disattese diffusamente la cautela organizzativa raccomandata dalla legge 148 nell’attivazione della pluralità dei docenti nel biennio iniziale e si privilegiò massicciamente – fin dall'esordio del percorso formativo degli allievi di prima – il modello connotato da equivalenza quantitativa degli interventi di più insegnanti nella stessa classe. Ciò non solamente per coerente applicazione del convincimento teorico sopra richiamato, ma anche per cedimento diffuso a un condizionamento di tipo ideologico (molto incisivo nelle scuole almeno dagli Anni Settanta), basato sull’adesione a un esasperato egualitarismo tuttora non dissolta, corresponsabile di non irrilevante consistenza nel processo di declino della scuola italiana da tanti, con accenti e toni via via più allarmati, ad ogni pie’ sospinto proclamato.

Di contro, nelle scuole paritarie (divenute progressivamente tali nel corso degli Anni Novanta) si scelse, con schiacciante maggioranza nelle opzioni, il modello “stellare”: si consideri, a riprova, l’indagine compiuta da Laura Gianferrari, I modelli organizzativi dell’offerta formativa nelle scuole primarie, pubblicata in questo stesso volume e relativa alle scuole dell’Emilia-Romagna. Da essa si evince che ben il 92% degli istituti paritari interpellati ha dichiarato d’aver dato corso ad una organizzazione di tipo “stellare”, mentre soltanto percentuali presso che irrilevanti di scuole hanno preferito il modulo o il tempo pieno.

 

4.   A quale dei due modelli è assegnabile la palma del più efficace?

Sono trascorsi quasi vent’anni dal varo della legge 148 che mise in scena, nelle forme sopra discusse, la pluralità dei docenti. Si è alla vigilia del ripristino dell’insegnante unico, al solito in un bailamme di contrasti e opposizioni gridati con voci assordanti, tali da far sospettare alle persone calme e assennate che non tutti i contendenti siano perfettamente consapevoli delle ragioni sostenute o rigettate e che il gusto del contenzioso polemico spurghi fuori per motivi di bottega ideologica, senz’altro esulanti dalla sostanza della vertenza; tutto ciò facendo quindi nettamente aggio rispetto alla effettiva peculiarità della questione.

Ma freno subito qui la frecciata, attratto dal desiderio di rispondere con adeguata pertinenza raziocinativa a un quesito: quale dei due modelli – passati retrospettivamente in rassegna con l’intenzione di lasciare il minimo spazio possibile ai risvolti etici e simpatetici che inevitabilmente colorano anche l’apprezzamento epistemologicamente più rigoroso – ha evidenziato il più elevato tasso di pertinenza, in fatto di efficacia formativa e risalto della qualità dell’istruzione?

Su due piedi è molto ardua l’adesione a un giudizio perentorio e inequivocabile. Pongo in campo allora un convincimento, forse per nulla affatto campato per aria: nessuno dei due modelli ha inciso in maniera determinante sulla conformazione qualitativa della scuola primaria, né l’uno né l’altro ha esibito pregi tali da doverlo dichiarare, senza retroterra alcuno di dubbio, vincitore e da giustificare di conseguenza la tesi che è imprescindibile ripristinare lo status quo ante il 1990 (e neppure che non si deve a nessun costo abbandonare o rigettare la tipologia organizzativa in atto). La scuola primaria era di buon livello in precedenza ed è sostanzialmente rimasta accettabile, anche se passi in avanti non li ha di certo compiuti, trascinata verso la china discendente nell’ambito della decadenza complessiva del sistema scolastico italiano.

Poiché – contrariamente a quanto avvenuto nelle scuole paritarie – nelle statali, come già evidenziato, si è diffusamente optato per il team di docenti “paritari”, è, dunque, senza troppe esitazioni ermeneutiche esprimibile la valutazione che tale modello non ha arrecato miglioramenti di qualche evidenza nel funzionamento e nella qualità della scuola primaria (l’apprezzamento si può estendere, maggiorato in termini deprezzativi, al cosiddetto “tempo pieno”), che esso, anzi, alla lunga ha evidenziato rispetto al “contendente”, le crepe più progressive e vistose. Motivo per il quale non pare un peccato meritevole della pena capitale l’intenzione di intervenire con una innovazione normativa in argomento, anche radicale e pervasiva.

 

5.   Sì, cauto, alla legge 148, pollice verso, perentorio, riguardo alle applicazioni

Qui si dà un giudizio moderatamente positivo sulla legge 148, animata da buone intenzioni, norma che sul piano giuridico e organizzativo ha fornito la cornice istituzionale auspicata e sollecitata ai programmi didattici della scuola primaria varati nel 1985 (cinque anni dopo, per la verità, i medesimi avevano ormai esaurito la loro funzione propulsiva, nei tempi immediatamente successivi all’entrata in scena esplicata a vivificazione della scuola elementare italiana, anche grazie al più sistematico e finanziato piano di formazione in servizio del personale docente mai messo in atto nel nostro sistema scolastico).

Però, come frequentemente capita, anche in settori operativi esulanti dal mondo della scuola, pure la legge 148 è stata in parte disattesa, in parte malamente applicata. Almeno sei sono le improprietà attuative macroscopiche che l’hanno portata a un sostanziale insuccesso, alla situazione attuale di indubbia crisi della pluralità dei docenti, che sta appunto inducendo i responsabili politici a legiferare per il ritorno al “maestro unico”.

Si è cominciato, quasi esclusivamente nelle scuole statali, con una estremizzazione della legge, con una generalizzata distorsione del suo dettato. Ho già richiamato il comma 5 dell’art. 5: esso sanciva (annacquando purtroppo la perentorietà della disposizione con un pilatesco “di norma”) che nei primi due anni si organizzasse il modulo in maniera tale da consentire una maggiore presenza temporale di un singolo insegnante in ognuna delle classi. Invece no: con preponderanza di scelte (almeno in svariate regioni, con in testa l’Emilia-Romagna), subito pronunciata l’opzione secca per il team di tre insegnanti “paritari”, in quanto a numero di ore di intervento in ciascuna classe, fin dall’esordio del percorso formativo: ciò – come sopra già accennato – sia a concretizzazione della convinzione che tutte le discipline avevano la stessa dignità e valenza (tesi molto in auge in quel torno d’anni) e che, quindi, era male che un docente prevalesse rispetto agli altri anche per la quantità delle ore (e delle materie) direttamente praticate, sia per la persistenza di un pregiudizio ideologico di impronta egualitaristica, germinato negli Anni Settanta (quelli appunto del boom, della sbornia ideologica), ancora molto potente, nelle scuole, due decenni dopo.

Perché, saggiamente, la 148 raccomandava la soluzione organizzativa appena richiamata? “Per favorire l'impostazione unitaria e pre-disciplinare dei programmi”, era l’immediata esplicita motivazione addotta.

Che cosa è invece accaduto, per via della improvvida preferenza accordata al team di tre docenti “paritari” fin dalla prima classe? L’impostazione unitaria e pre-disciplinare dei programmi è andata quasi dappertutto a rotoli.

Comincio l’anamnesi dicendo innanzi tutto della pre-disciplinarità. Essa è stata per decenni il tratto distintivo, la stella polare nelle teorie e nelle prassi didattiche della scuola elementare. Dà forma, sostanza e carattere ai programmi del 1955, muovendo dalla tesi, in quel mirabile testo enunciata in termini lapidari, che “nella psicologia concreta del fanciullo l’intuizione del tutto è anteriore alla ricognizione analitica delle parti”. È tenuta ben presente anche nei programmi didattici del 1985, pur abissalmente differenti rispetto ai predecessori, per impianto epistemologico e fondamenti pedagogico-didattici: “Il progetto culturale ed educativo evidenziato dai programmi esige di essere svolto secondo un passaggio continuo che va da una impostazione unitaria pre-disciplinare all’emergere di ambiti disciplinari progressivamente differenziati”. Questo è l’inequivocabile dispositivo che il testo programmatico del 1985 mette in scena.

Orbene, malgrado raccomandazioni così esplicite, è diffusamente avvenuto che, fin dal primo giorno di scuola primaria, gli alunni seienni siano stati fatti violentemente impattare con una impostazione duramente disciplinare della didattica, corredata da un profluvio di “quadernoni”, da proposte d’insegnamento per nulla attente né alle modalità in atto nei bambini di percezione della realtà, né all’esigenza di curare con la debita avvertenza le interconnessioni tra le discipline. Avverso tale “secondarizzazione della scuola primaria” fin da subito si sono levate voci allarmate di osservatori che non avevano affatto avversato la pluralità dei docenti ma ne constatavano le distorsioni attuative subito emerse: ma si sa che in questo intontito Paese nessuno è escluso dall’attenzione come le cassandre.

Tale concreta ed effettiva circostanza, in una quantità molto rilevante di situazioni operative manifestatasi, ha strangolato anche il secondo “marchio di fabbrica” peculiare della scuola elementare italiana del Novecento, l’unitarietà dell’insegnamento.

Quando (nell’imminenza del varo della legge 148) si ragionava della istituenda pluralità dei docenti si evidenziava che l’insegnante unico (salvo che in casi di individuale “schizofrenia”) garantiva sostanzialmente bene l’unitarietà dell’insegnamento, valore assoluto da preservare ad ogni costo. L’avvento del team, si diceva, può rendere la salvaguardia di tale bene più problematica, se non si interviene con un pacchetto di azioni capaci di far lievitare la coscienza critica degli insegnanti circa l’importanza di tale principio e di aumentare la effettiva preparazione professionale.

Ciò non è avvenuto o l’impegno è stato malamente assolto. Con la conseguenza che la pluralità dei docenti ha inferto un colpo micidiale appunto all’unitarietà dell’insegnamento e, per esempio, contraddice clamorosamente l’istanza, primaria anche nelle Indicazioni per il curricolo 2007, di operare in tutte le scuole del I ciclo per conseguire una effettiva e generalizzata “unificazione dei saperi” (è doveroso rilevare, en passant, che un analogo pernicioso attentato si è verificato, anche prima del 1990, nelle classi a tempo pieno, trascorso il periodo “eroico” dello stesso, quando si pensava, si studiava e si sperimentava – in gruppi ristretti di maestri motivati –, dal momento in cui la generalizzazione indiscriminata del tempo pieno ha immesso nel medesimo legioni di insegnanti “generici”, con disponibilità alla ricerca di nuove vie banalizzata o assente, magari assunti nei ranghi ope legis).

Altro appunto critico (avverso le modalità attuative della 148) che non è etico omettere. La norma, mentre disponeva l’assegnazione delle due discipline basilari (lingua italiana e matematica) a due insegnanti diversi, non prevedeva affatto che tale opzione fosse irreversibile e definitiva; confidava anzi, utopisticamente (ingenuamente in verità) che in detta attribuzione si procedesse in spirito di flessibilità, dando periodicamente corso a differenziazioni nell’assegnazione delle discipline. Ma ha prevalso la fossilizzazione dispositiva e quasi mai un docente di “italiano”, per esempio, fuor dai casi di forza maggiore, è tornato a insegnare “matematica”. Quale l’effetto di tale rigidità, a dire il vero con una certa facilità preconizzabile, e inevitabile? Una ulteriore legnata all’unitarietà dell’insegnamento, un contributo assai inopportuno alla perniciosa “secondarizzazione delle primaria”.

La legge 148, fin dai primi mesi di applicazione, anche per intrinseca carenza di flessibilità nell’articolazione delle sue disposizioni, ha evidenziato un impatto imprescindibile con una mostruosa complicazione nelle soluzioni organizzative dell’impianto modulare. La tipologia ottimale e in sé quasi non traumatica aveva da essere il modello di tre insegnanti contitolari in due classi orizzontali (senza necessità alcuna che i tre intervenissero in ciascuna classe, possibile essendo una organizzazione basata su un insegnante per classe coadiuvato da “mezzo” collega). Invece, anche per l’atomizzazione nel territorio nazionale di plessi con un numero esiguo di classi, subito in primo piano la necessità di strologare un profluvio di soluzioni: tre su due in verticale, quattro su tre (micidiale!), moduli a scavalco (abbinamento, per esempio, d’una prima, una terza e una quinta), moduli con classi appartenenti a plessi diversi (vero e proprio abominio), commistioni incestuose con il tempo pieno. Insomma, una confusione organizzativa pazzesca, tale da assorbire, per un tentativo di dominio e controllo della stessa, energie psichiche e ideative spaventose di docenti e dirigenti scolastici, le quali meglio avrebbero fruttato se spese nello studio e nell’esercizio culturale della professione.

Anche per il frastornamento provocato dalla situazione appena abbozzata, subito dopo il 1990, schiere fitte di maestre, disgustate dalla tipologia professionale irragionevolmente complicata loro imposta, si affrettarono a prendere congedo dalla scuola rifugiandosi nel pensionamento; quanti non potevano uscire di scena per difetto d’anni di servizio scapparono nel tempo pieno, che magari avevano fino a un momento prima robustamente avversato, percepito comunque come assetto funzionale meno cervellotico.

Last but not least: l’applicazione quasi ovunque convulsa della legge 148 ha prodotto una proliferazione smodata della pluralità delle figure docenti in ogni classe: avrebbero potuto, come s’è notato, essere due soltanto; invece sono diventate tre, normalmente, poi quattro, cinque con l’insegnante di sostegno, sei con quello di religione, sette con quello delle attività alternative, otto con il docente di lingua inglese, nove, per altri motivi in aggiunta, in non poche realtà. È ragionevole la difesa di una tipologia organizzativa pervenuta a siffatti livelli di patologia? Non è indispensabile il taglio netto e repentino di un nodo gordiano così tanto ingarbugliato?

 

6   Alcune parole sul modello “stellare”

Il modello “stellare”, nella scuola statale uscito perdente – come si è analizzato – rispetto a quello del team di docenti “paritari”, preferito invece con percentuale “bulgara” nelle scuole paritarie, ha retto meglio, rispetto al concorrente, alla naturale “entropia” provocata dalla reiterazione delle prassi? Sì, con tutta probabilità: perché aveva esordito in sordina a differenza dell’antagonista, caricato di pretese innovative minimali, caratterizzato da un tasso di eversione assai modesto rispetto alla tradizione pedagogica e didattica dell’insegnante unico, quasi immune dai numerosi, gravi inconvenienti strutturali sopra passati in rassegna.

Pertanto, a quasi vent’anni dall’avvio dell’innovazione qui discussa, esso ha sostanzialmente vinto il confronto con il team di docenti “paritari” (ma, ripeto, si sono esibiti due contendenti entrambi di modesta levatura “tecnica”) e, conseguentemente, ragione e logica esigerebbero la sua adozione generalizzata e non contrastata (se la partita dialettica in merito fosse tutta giocata con le armi dell’analisi argomentativa storicamente fondata e non intervenissero nella contesa – come purtroppo sta avvenendo in questi giorni e di ciò sarebbe ingenuo meravigliarsi – condizionamenti, parole d’ordine, spurghi di passione che nulla hanno da spartire con l’epistemologia, la pedagogia e la didattica – neppure con l’etica, in verità).

Più che bene sarebbe però non disattendere mai alcune basilari avvertenze, tenere presenti e applicare criteri imprescindibili. Pongo in proposito in primo piano la necessità di attenersi a una grande flessibilità nella messa in scena del modello “stellare”, anche ricorrendo a un ventaglio di strategie operative peculiari della scuola elementare del buon tempo che fu, le quali, se pure non in esclusiva, assicurarono a quelle esperienze didattiche un prestigio internazionale che neppure i guasti generati dall’organizzazione modulare (e dal tempo pieno che della stessa assomma in sé tutte le negatività, con in aggiunta le sue proprie specifiche) sono riusciti ad azzerare.

Che cosa intendo sostenere, concretamente? I convincimenti a seguire enunciati.

Prima di assegnare un incarico “specialistico” a un docente è indispensabile appurare con estremo rigore le competenze disciplinari dello stesso, per evitare quel che svariate volte è accaduto finora, vale a dire l’attribuzione di responsabilità specifiche di insegnamento a persone nient’affatto preparate, secondi criteri di assegnazione approssimativi e burocratici.

La flessibilità sopra rammentata, inoltre, implica il ricorso a una assidua “creatività organizzativa”: prevedendo “classi aperte” (secondo il modello additato dalla buona legge 517 del 1977), ovvero sia la formazione di gruppi di alunni appartenenti formalmente a classi diverse, per la realizzazione di attività di recupero e sostegno, elettive in base a disponibilità e interessi, riferite a particolari progetti; dando corso a “scambi di insegnanti” tra le diverse classi, per valorizzare al meglio le competenze peculiari da ciascuno possedute; prevedendo la cooptazione – nel contesto di una progettazione priva di rigidità – di esperti esterni, evidentemente per proporre agli allievi esperienze e attività peculiari di svariata natura; anche ipotizzando e incoraggiando interventi didattici di genitori degli alunni, in spirito di autentica e non banale compartecipazione dei medesimi alla vita della scuola.

 

7.  Evviva incondizionato al “ritorno del maestro unico”, allora?

No, almeno sul piano formale e nominalistico. Perché la locuzione “maestro unico” è alquanto infelice (quale, poi, la ragione della denominazione maschile? Nella scuola primaria insegnano ormai quasi in esclusiva signore e signorine), è rétro, odora indubbiamente di passato e si dovrebbe sapere, soprattutto quando si intende innovare anche ripristinando assetti organizzativi e operativi lasciati alle spalle, che non è buona norma comunicativa ri-assumere tout court espressioni denotative già vigenti poi abbandonate. Soprattutto quando – come ripetutamente precisato dal ministro Gelmini e dal capo del governo – ci si prefigge di sostituire il team di docenti “paritari” con l’insegnante “prevalente” coadiuvato da specialisti, ovvero sia di privilegiare il “modello stellare”, oggetto d’analisi in questo saggio.

Chi ha anche solo un poco di conoscenza delle vicende della scuola facilmente s’avvede del fatto che con questa innovazione viene rilanciata e sviluppata l’idea di insegnante “prevalente” nella scuola primaria che sostanziava (sostanzia tuttora) il decreto legislativo 59/2004 (le cose sarebbero andate meglio, non ci si troverebbe nell’attuale stato di frastornamento e disagio se quella sanzione normativa assai equilibrata non fosse stata forsennatamente avversata, anche allora per mere pulsioni ideologiche senza attinenza alcuna con i provvedimenti – innovativi senza traumi – rifiutati a squarciagola).

Ormai i giochi sono (quasi) fatti, considerato che il decreto legge istitutivo del “maestro unico” è già stato approvato dalla Camera dei Deputati. Ugualmente però discorro della questione, accademicamente, per chiedermi: si poteva procedere diversamente, perseguendo il doppio obiettivo del Governo di razionalizzare l’ingente spesa sostenuta per l’istruzione, contenere gli sprechi e tentare di contrastare il declino che attanaglia la scuola italiana?

Sì, a mio avviso. Rilanciando l’attuazione del cosiddetto “organico funzionale” che, avendo fatto una comparsata timida e marginale nella scuola negli anni scorsi, non è consunto dall’uso, in quanto ipotesi operativa, come il “maestro unico”.

Ne dico sommariamente in poche battute epidermiche. Si poteva, da parte del Ministero, fissare in termini rigidi e perentori il numero minimo degli allievi per classe e quello massimo, prevedere come prassi la facoltà di effettuare le supplenze da parte dei docenti a tempo indeterminato (così premiando i più disponibili alla collaborazione e ….. risparmiando), fissare mediante criteri estremamente precisi e trasparenti (nonché inderogabili) la quantità di insegnanti assegnabili ad ogni istituto scolastico (per tutte le azioni: attività normali, tempo pieno – eventuale, sostegno, attivazione di progetti e quant’altro; calcolando il tutto in maniera da ottenere comunque un adeguato contenimento delle spese rispetto alla attuale situazione, in cui le difformità organizzative e conseguenti sprechi sono ….. montagne.

Ciò disposto, senza mettere bocca nell’organizzazione didattica, lasciata alla responsabilità delle autonomie scolastiche. Perché (in passato spesso tale principio veniva richiamato) lo Stato democratico non ha né una sua pedagogia, né una metodologia, né una didattica. Fatto salvo, per altro, il suo diritto-dovere di controllare con capillare puntualità (per conoscere, informare e orientare l’utilizzo delle risorse) le scelte effettuate dalle scuole autonome. Con un suo staff di ispettori tecnici, culturalmente attrezzato e quantitativamente adeguato. Il quale non c’è affatto: ma questa è un’altra storia.

Comunque, ciò palesato e sostenuto, nella contingenza attuale – di grave indubbia crisi del sistema scolastico italiano – per la sopravvivenza dello stesso è indispensabile che i responsabili politici non mutino di un millimetro la rotta intrapresa, resistendo dunque con ferrea fermezza morale e politica alle pulsioni oppositive anche forsennate già puntualmente esplose (fiottanti dagli strati magmatici e notturni della psiche di molti, non certo dalla zona apollinea delle menti), e alle carnevalate conseguentemente messe in scena per testimoniare e urlare da parte di tanti – insegnanti, genitori, agit prop di professione – la propria persistente e implacabile idiosincrasia a qualsivoglia proposito di rimuovere le anomalie strutturali più evidenti, almeno a contenimento se non proprio a eliminazione del disastro progressivo della scuola italiana.